Domenicale, 11 giugno 2023
La memoria del giardino
Nel corso di un viaggio in Francia Arthur Young, protagonista assoluto della rivoluzione industriale in agricoltura, giunse nel 1787 al castello di Chambord sulla Loira e si stupì per lo stato di abbandono del grande parco. Con rigorosa lucidità agronomica considerò che sarebbe stato meglio tagliare gli alberi delle malconce foreste ed eliminare le siepi del parterre e, al loro posto, coltivare rape foraggere e dedicarsi alla zootecnia. Due anni dopo, in visita alle campagne della Riviera attorno a Nizza, le argomentazioni cambiarono tono e prevalse una viva indignazione. «Il giardino che da noi è un oggetto di piacere è qui fonte di economia e di reddito, condizioni che sono incompatibili». Il paesaggio lussureggiante di aranci e limoni gli appariva «detestabile» e non comprendeva come un giardino potesse soddisfare le funzioni economiche del produrre.
Se negli anni seguenti avesse potuto ripetere il suo viaggio, recandosi ancora più a sud, avrebbe però cambiato opinione. Le navi a vapore e i treni – emblemi della rivoluzione – avevano indotto a grandi trasformazioni l’agricoltura delle coste mediterranee con l’impianto diffuso di giardini produttivi di agrumi. Dirà Fernand Braudel che, a partire dal XIX secolo, in terreni bonificati e terrazzati, «fioriscono gli aranci e le civiltà». Alla metà del secolo successivo, quando la speculazione edilizia ne cancellerà gran parte, il filosofo Rosario Assunto si lamenterà «come di una luce che si è spenta sul mondo» della distruzione della Conca d’oro di Palermo, il solo paesaggio mediterraneo che lo storico francese aveva trovato degno del Paradiso. Il rimpianto di Assunto dà senso al dire comune degli agricoltori meridionali per cui un agrumeto merita di essere chiamato giardino: «la perfezione del paesaggio è simultaneità di fiore e di frutto … coincidono in un giardino assoluto, l’idea del giardino, natura contemplabile, con quella del frutteto natura utile alla vita». Si fondava su Friedrich Schiller che nel 1795 aveva affermato che «nei frutteti, nei vigneti, negli orti … si manifesta il primo fisico cominciamento dell’arte dei giardini, ancora spoglia da ogni ornamentazione estetica».
I giardini dei primi agricoltori erano infatti nati per interesse alimentare e quello di cui si ha più antica rappresentazione – un pittogramma del III millennio impresso in tavolette d’argilla rinvenute nella Mesopotamia meridionale e oggi conservate al Louvre – mostra un singolo albero chiuso in un recinto. Giardini elementari che esistono ancora a Pantelleria dove se ne contano oltre 400 in forma di torri in pietra lavica a secco alte fino a 4 metri e contengono, serrati da una porta, un unico arancio o un limone. Nei frutteti della tradizione il senso della storia evolve lungo il modello omerico del giardino di Alcinoo: «grande orto presso le porte … tutto intorno una siepe. Alberi là dentro in pieno rigoglio, peri e granati e meli, …e due fonti: una per tutto il giardino si spande, l’altra…corre fin sotto il cortile, fino all’alto palazzo».
Un paesaggio (periurbano, multifunzionale, biodiverso ed irriguo) che Sereni battezza «giardino mediterraneo» a partire dalle informazioni contenute nella tavola marmorea di Halaesa, città romana del V a.C. sulla costa tirrenica siciliana, e che in epoca araba si sviluppa con nuove colture e tecniche per giungere alle intensificazioni dell’agricoltura ottocentesca.
I paesaggi sono palinsesti che mantengono segni indelebili degli avvenimenti. Lo dimostra il giardino di San Giuliano a Villasmundo nei pressi di Siracusa (visitabile attraverso il circuito di Grandi Giardini Italiani) anche attraverso evidenze letterarie: le vicende dei Paternò Castello di San Giuliano, che si ritiene abbiano ispirato quelle della famiglia Uzeda che Federico De Roberto rende protagonista de I Viceré, si mostrano attraverso i mutamenti del paesaggio. Don Ferdinando che «faceva assegnamento sulle bonifiche … cominciò a dissodare, a scavar pozzi, a strappar mandorli per piantar limoni». Prima di lui, il principe Giacomo XIII, «trovata finalmente l’acqua, che un bindolo tirava su, giudicò che la cultura della vigna poteva vantaggiosamente esser sostituita da quella degli agrumi». La nuora Donna Teresa fu di idee opposte e risparmiò «solo quattro palmi di giardino e tanti piedi d’agrumi quanti bastavano a far la limonata in tempo d’estate». Adesso sono tornate le arance (le sanguigne Tarocco, Moro e Sanguinello), ma rimangono gli olivi secolari e i filari di palme, là dove le ha risparmiate il punteruolo rosso, a disegnare i viali di un agrumeto di 60 ettari. Il miglior punto di osservazione sulla tenuta si raggiunge attraverso un piccolo sopraelevato giardino in stile islamico che, negli anni Novanta, Oliva di Collobiano ha disegnato con sapienza paesaggistica. Un «giardinetto» quadripartito, fitto di agrumi, gelsomini e con «l’acqua che non dorme» scorrendo e mormorando tra saie e vasche, ha per sfondo l’agrumeto produttivo e la sorprendente mole dell’Etna. Oliva di Collobiano ne parla ne Il Paesaggio in cammino, in un racconto che tiene insieme giardini e paesaggi a Capri, in Sicilia, in Toscana, piante e architetture, botanici e giardinieri. Un racconto che ha l’andatura di una passeggiata da compiere «da soli…per stare con l’affascinante esistenza delle piante… ammirare la vegetazione nella sua superficialità, liberarsi dall’intenso passato e ritrovare nella natura la guida dell’uomo – convivenza misura ordine, proporzione – le ragioni per esercitare la cautela e l’equilibrio, l’etica, la memoria dei fatti».
Arrivare oggi al giardino lungo un’autostrada sconnessa, l’aggressione cementizia di villaggi residenziali, il disordine urbanistico della periferia di Catania e la terribile visione del polo petrolchimico di Priolo è cosa ben diversa dal piacere che, nell’estate del 1959, aveva accompagnato Pasolini in un reportage per la rivista «Successo»: «non è mica una chiacchera … profumano zagare e limoni, ficodindia e papiri... e il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire». Il giardino, per sei mesi durante la pandemia, ha ospitato in isolamento Mike Jagger, ma niente indica che l’ultima canzone dei Rolling Stones, Living in a ghost town, (Vivendo in una città fantasma), nata tra Londra e Los Angeles e definitivamente arrangiata nella sala di registrazione allestita nella Masseria quattrocentesca, abbia tratto ispirazione anche dalle ferraglie arrugginite e dai fumi innaturali di un monumento della civiltà del petrolio (quello di Priolo, invisibile dal giardino ma non dalla via di accesso) in via di abbandono.