Domenicale, 11 giugno 2023
Le sculture della Specola di Firenze e David Cronenberg
All’epoca del Grand Tour, quando i gentiluomini di tutta Europa scendevano nel Paese dove fioriscono i limoni, le mète non erano solo musei d’arte e pale d’altare, colli, valli, ville e freschi germogli dell’analfabeta gioventù italiana. Nel full package era compresa la visita alla più avvincente e più inquietante delle collezioni. A Bologna o a Firenze si potevano ispezionare i gabinetti scientifici dove erano esposte le cere anatomiche: statue di cera fusa, candelilla o carnauba, trementina, oli, spermaceti, fili di seta inzuppati: solitamente maliose figure femminili, calde per il sortilegio dell’arcana materia, il cui corpo secato esponeva i visceri all’osservazione clinica o all’attrazione estetica. Goethe e Stendhal ne uscirono avvinti, Melville e la Vigée-Lebrun disgustati, Boswell divertito. Thackeray narra di un Mr Muff che visita a Londra una collezione dissimile ma analoga, le cere di Madame Tussaud, e viene preso dal terrore all’idea di restare solo, di notte, in compagnia di quei corpi meno che vivi ma più che morti.
A chi percorra ora l’esposizione organizzata dalla Fondazione Prada a Milano, che accoglie quattro delle figure femminili uscite dai laboratori di ceroplastica del fiorentino Museo della Specola e una serie di altri manufatti anatomici, il pensiero della notte viene spontaneo. Come sarà quella sala, già buia per scelta degli espositori, quando il silenzio avrà spento ogni luce? Cosa sarà di quei corpi di giovani donne, cesellati fino al più piccolo dito del piede, dalla bocca leggermente dischiusa a scoprire una chiostra minuta e bianca, adagiate su giacigli di seta e sigillate in trasparenti scatole di vetro su leggiadre impalcature in palissandro o bois de rose? Philippe Curtius, modellatore elvetico, creò con la Bella addormentata una creatura di cera che abbassava e sollevava il petto quasi respirasse, muta e lievissimamente palpitante come le dormienti del romanzo di Kawabata, e come loro spaventevoli e seduttive.
Nate per soccorrere a un’esigenza scientifica, le sculture fiorentine portano con sé la dimensione della fantasmagoria, l’interrogativo su cosa sia l’identità corporea, il dubbio sulla natura illusoria della specie visibile, la suscitazione dell’erotico dal funereo. La mostra milanese le reinterpreta attraverso lo sguardo di un regista che a questi temi ha dedicato la propria poetica, David Cronenberg: egli ha filmato alla Specola le quattro figure femminili e ha realizzato un cortometraggio, Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection.
Destinate a venire rilette nelle mille implicazioni che recano con sé, le ceroplastiche si originano dal proposito di Pietro Leopoldo di Lorena, di annettere all’imperiale e regio Museo di Fisica e Storia Naturale, inaugurato nel 1775, un laboratorio dove anatomopatologhi e modellisti potessero realizzare copie credibili del corpo umano, squadernato all’osservazione di scienziati e di gente comune (il Museo era aperto al pubblico): per ogni Venere compiuta si utilizzavano decine di cadaveri. Sovrano illuminato, Pietro Leopoldo (poi Leopoldo II, imperatore) creò a Firenze il maggiore centro produttivo di cere anatomiche del globo, nato da una costola dell’analogo laboratorio bolognese e ancor prima dall’esempio (di macabro secentismo, però: comprendeva la scolpitura di teste in decomposizione) del siracusano abate Zumbo, l’insuperabile virtuoso.
Il proposito era molto semplice: forgiare strumenti di esplicazione del corpo senza i disagi che la macelleria umana portava con sé sulle tavole di dissezione dei laboratori medici. La matrice scientifica e illuministica del progetto sfocia però, riletta oggi, in un esito inquietante: l’esposizione delle intestina e la sconcertante relazione tra la superficie setosa dell’epidermide tinta di coppale e il gurgite sanguinolento di budella, muscoli, nervi, vasi, tessuti molli che lo squarcio dell’addome presenta, fungono da reagente per la sensibilità di ognuno verso quel mistero che tutti portiamo dentro di noi, sotto l’involucro presentabile, e che la dissecazione tradisce. «Là iniziano le macchine», diceva Paul Valéry. Là, sotto le lucide bocche, sotto i seni candidi delle Veneri di cera, è il mistero della meccanica e dell’idraulica, la machina del corpo, l’inaccettabile, inguardabile, insoffribile vita della materia che ci abita, quel di cui siamo fatti a pochi millimetri dall’epidermide. Le ceroplastiche fiorentine spezzano così l’interdizione dello sguardo.
Il paradosso di cui sono portatrici, che esemplificano perfettamente le collane di perle poste in corrispondenza dei tagli così da mascherarli, è rivelato da quanto, in esse, eccede la credibilità scientifica. Compiuta in ogni dettaglio, la mirabile Venere dei medici di Clemente Susini, scomponibile a strati come una matrioska, è in realtà sede di una rappresentazione incongrua: quella di una donna dall’addome piatto contenente un utero gravido, che a propria volta ospita un feto formato, più piccolo rispetto allo stadio di sviluppo che presenta. In questo scarto tra gli spazi organici e la loro rappresentazione idealizzata, le cere fiorentine eccedono la credibilità scientifica e si propongono come rappresentazioni artificiali, come installazioni artistiche e come esempio nolente di performances. La loro sede d’elezione, più che l’aula delle lezioni di anatomia, è la Wunderkammer.