Domenicale, 11 giugno 2023
C’era una volta Sergio Leone
«C’era una volta» con quel che segue. Tre parole e una formula che è la madre di tutte le storie e che, d’acchito, segna la differenza tra il mondo delle favole e delle leggende e la vita di tutti i giorni.
È appena uscito nella collana «Opere brevi» delle Edizioni di Henry Beyle una plaquette con un testo di Sergio Leone che si intitola appunto C’era una volta in America. Storia di un film; e bisogna subito aggiungere che si tratta di un incipit, rivolto al lettore – e prima ancora allo spettatore –, lontano le mille miglia dal tono ieratico dei conta-favole del tempo che fu. Lontano da una non meglio precisata e precisabile notte dei tempi, in cui il poeta – l’artista – era da intendere come una sorta di sacerdote o stregone («a me gli occhi, a me gli orecchi») che parlava – agiva – attingendo alle fonti dell’essere – ossia del divino.
Il “c’era una volta” del nostro tempo – di noi moderni, modernisti e post-moderni – è invece soltanto una frase fatta, seppur ricoperta da una patina d’antico, che pronunciamo sempre con il tono di chi la sa lunga; e, cioè, con ironia. Ma è proprio qui che sta il busillis. Perché si tratta di una parola – dal greco eironéia, ossia “dissimulazione” – che, dizionario alla mano, sappiamo avere un valore duplice e un significato ambiguo.
Da un lato c’è infatti l’ironia cosiddetta “romantica” di cui ebbero a scrivere certi pensatori tedeschi con l’intento di chiamare l’attenzione sulla abissale differenza ravvisabile o ipotizzabile tra la verità degli Archetipi e la loro approssimativa rappresentazione (che è peraltro la sola possibile in questo basso mondo). Mentre dall’altro lato c’è l’ironia intesa come espediente retorico a cui si ricorre, magari strizzando un occhio d’intesa con l’interlocutore, quando si vuol dare a vedere di essere al passo coi tempi. E cioè smaliziati quanto basta per non credere alle favole, ai miti e forsanche alla metafisica.
Il film C’era una volta in America (1984) è il punto d’arrivo nella carriera di un regista attore e sceneggiatore, figlio di un cineasta del muto e ragazzo di bottega virtualmente cresciuto a Cinecittà, che una manciata di film western aveva reso celebre in Italia e nel mondo alla fine degli anni 60.
Avendo in curriculum anche opere di cartapesta in cui i miti e i riti dell’antichità venivano maltrattati con la beffarda disinvoltura dei polpettoni storico-mitologici del grande Totò (anche se purtroppo senza Totò), si potrebbe pensare che i film di Sergio Leone debbano sempre essere letti all’insegna della suddetta ironia di carattere retorico. “Tongue in cheek”, come dicono gli inglesi.
Ma non è così. Tanto in quel “kolossal de noantri” che è Il colosso di Rodi (1961) quanto nei successivi spaghetti-western, anche quando dà l’impressione di rivolgersi al pubblico disinibito e ruspante dell’avanspettacolo, erede della folla che un tempo gremiva gli spalti del Colosseo; Leone tradisce un rispetto sacrale per le opere di certi maestri di Hollywood – da Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy (1931) a Lo sfregiato di Howard Hawks (1932); e da Ombre rosse (1939) e Sfida infernale (1946) di John Ford, fino a Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann (1952).
«Sono entrato nel cinema con una vocazione più forte di una fede religiosa» – scrive infatti Leone – «e non ho mai temuto condanne per eresia». Le immagini dell’America e del “Sogno americano”, nonché dell’America come sogno a occhi aperti, finirono ben presto per apparirgli come un incentivo al cimento. Nonché la conferma indiretta, possiamo aggiungere, di quanto ebbe a scrivere André Malraux in un capitolo della sua Psychologie de l’art (1948), là dove confutava la leggenda, tramandata dal Vasari, secondo la quale Cimabue sarebbe stato colto da un moto di ammirazione vedendo il pastorello Giotto che ritraeva una pecora. Per Malraux, non poteva essere l’oggetto ritratto – la pecora – a instillare in Giotto il desiderio di dipingere, bensì, al contrario, il disegno di quell’oggetto.
C’era una volta in America sarebbe dunque l’ennesima riprova che le opere d’arte nascono e prosperano nel contesto di una tradizione. E così come gli Archetipi (con la maiuscola) sono confinati in un mondo astrale – la patria celeste di cui parla Platone, i grandi film del passato sono stati, per Sergio Leone, archetipi (con la minuscola) custoditi nello scrigno della memoria. Un universo parallelo e un paradigma da cui ripartire che lui stesso aveva definito, con parole d’incanto, come un C’era una volta un certo cinema.
C’era una volta in America è però anche l’epitome di un percorso personale iniziato con una serie di inconfondibili western all’italiana in cui, assai più che la trama erano le inquadrature – l’ingrandimento rallentato di certi collaudatissimi momenti del cinema di Hollywood – a catturare l’occhio e a farla da protagonista. Cosa che permane, almeno in parte, come un marchio di fabbrica anche nell’ultimo capolavoro; nel quale, però, certi vertiginosi virtuosismi della macchina da presa sono riassorbiti e resi funzionali alle necessità di un racconto costruito attorno al tema della ricerca di un burrascoso tempo perduto quale era stata l’adolescenza di un gruppo di ragazzi – tutti per uno e uno per tutti – nella New York degli anni 20.
Imitato da tanti colleghi e vincitore di premi prestigiosi assegnatigli da critici sapienti e scafati, Leone ha fatto scuola di qua e di là dell’Atlantico con opere di successo. È stato, in altre parole, un innovatore ma non un artista di avanguardia nel senso storico dell’espressione. Senza mezzi termini ha infatti sempre sostenuto che «il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole»; e che pertanto la prova probante della riuscita di un film sta nell’evitare che lo spettatore che paga il biglietto si addormenti sulla sedia.
C’era una volta in America è in realtà un epigono, nel senso che ha preso il posto, dei melodrammi dell’800, il cui successo o insuccesso, assai più che dai critici di professione, era deciso dal responso – leggi: soddisfazione estetica – della gente in sala e della temutissima parrocchietta del popolo minuto allogato in loggione.
Da che mondo è mondo, e cioè da quando esistono gli spettacoli, è la qualità della prestazione a fare tutta la differenza. E quella di stupire – «è del regista il fin la meraviglia» – allo scopo di mantenere viva l’attenzione dello spettatore, è una necessità imprescindibile, soprattutto nel cinema di Leone. I cui film, da quelli che chi se ne intende definirebbe di “serie B” fino a C’era una volta in America, sono concepiti e realizzati per avere un impatto diretto col pubblico. Perché questa – hic Rhodus, hic saltus – è, da sempre, la legge dello spettacolo: a teatro, al cinema, al circo e nelle sale da concerto.
Il resto è arte assistita.