il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2023
Biografia di Peppe Lanzetta raccontata da lui stesso
Il suo liquido amniotico è il corso di Secondigliano. “Mille volte me ne sono andato, però solo qui ho trovato il dolore, il tormento e l’estasi”.
Peppe Lanzetta è mille forme d’arte racchiuse in un solo corpo, una sola voce, ma una storia condivisa con le persone che ha incontrato e quelle che lo hanno preceduto. Ha recitato per Nanni Loy, Giuseppe Tornatore e Mario Martone; ha composto con Pino Daniele e James Senese; ha scritto libri lodati dallo stesso Sorrentino (“i suoi testi sono rabbiosi, incisivi, felicissimi”), e uno dei suoi migliori, Un Messico napoletano, compie trent’anni ed è stato ripubblicato da Nicolucci Editore.
Non ha WhatsApp.
Anni fa ho provato a stare sui social, però mi infilavo nei guai: mi attaccavo con le persone; (sorride) alla fine il poeta deve restare tale, non può cadere in certe trappole.
Poeta.
Ricordo Maurizio Grande, biografo di Carmelo Bene, che nei primi anni 80 venne a vedermi a Roma: in sala c’erano solo lui e la compagna; alla fine bussò nei camerini. “Grande”. E io: “Macché ‘grande’, qui nun c’è nisciuno”. “No, mi chiamo Maurizio Grande e tu diventerai tale”.
Com’era arrivato a Roma?
Grazie a Leo de Berardinis; ero in scena a Napoli e alcuni mi accusarono di aver copiato un suo testo, quando non sapevo neanche chi fosse. Quindi trovo il suo numero, lo chiamo e m’invita a casa: entro e vengo sottoposto a una specie di interrogatorio, “chi è questo”, “chi è quello”, “perché vuoi fare teatro”. Fino a quando mi chiede: “Parlami di Schönberg”.
E lei?
Zitto, ma lo colpì la mia espressione di stupore: “Bravo, nel tuo volto ho visto il teatro!”. E solo per questo chiamò un amico perché meritavo un palco.
Era intimorito da De Berardinis?
Per forza, a casa sua trovai delle persone impegnate in una sorta di orazioni, di odi davanti a dei fiaschi di vino.
Fiaschi pieni o vuoti?
Già svuotati; a un certo punto arriva il maestro, in stile sciamano, avvolto da un caftano e la scena era al completo.
Aveva studiato teatro?
(Sorride) Sono nato e cresciuto a Piscinola davanti a un prato dove ancora non erano state costruite le Vele di Scampia; dopo le medie, il massimo per le mie aspirazioni è stato frequentare Ragioneria, poi basta, anche perché era morto mio padre e mamma non poteva permettersi altro; (sorride) però trovai in classe Pino Daniele: gli anni più belli della nostra vita.
Com’era?
Pensavamo di fare la rivoluzione; (cambia tono, stridulo) mi insegnò le voci dei femminielli, avevo immaginato una storia su una famiglia napoletana in cui tutti erano transessuali; Pino era la voce della pietra di tufo del corpo di Napoli. Ed era un ragazzo comico.
Viene sempre descritto come un po’ musone.
Nel privato per niente; per il Capodanno del 1975 abbiamo organizzato uno spettacolo teatrale al Vomero, lui alla chitarra, mentre io intonavo due suoi brani, uno dedicato a un vecchio gay e un altro sulla perversione; suonava e rideva, non aveva il coraggio di cantarla.
Lei sì.
Io ero un guitto; poi Pino era preoccupato, si definiva chiatto e mezzo cieco, temeva che nessuno lo avrebbe preso sul serio come cantante; (abbassa la voce) nel 1976 sono entrato in banca, però lo accompagnavo agli appuntamenti con i discografici: partivamo in auto e all’altezza del casello fingeva di dormire perché non aveva una lira.
Poi qualcosa è cambiato…
Grazie al successo del secondo disco abbiamo girato l’Italia; dopo ci siamo allontanati.
Perché?
Storie di impresari, produttori, gente che si è messa in mezzo; ma ho avuto il coraggio di sbattergli in faccia la mia verità e per trent’anni non ci siamo parlati.
Fino a quando?
James Senese ha deciso che era il momento dei chiarimenti e ci siamo abbracciati nei camerini del Palapartenope di Napoli, dopo un suo concerto; (pausa) eravamo solo noi tre, gli amici del tempo, e sono scoppiato a piangere con James che nel frattempo aveva iniziato un monologo assurdo, alla Beckett: “È normale, è l’emozione”; qualcosa di meraviglioso. Poco tempo dopo Pino è morto.
Lei ha vissuto gli anni 70 dei giovani talenti partenopei.
Andavo a casa di Edoardo Bennato per scrivere i testi (lo imita alla perfezione); lui è un altro tipo strano; poi ho lavorato con Avitabile e Senese; ma io volevo diventare attore, comico, musicista, scrittore.
Un po’ troppo…
Esatto, anche se hai talento devi risultare catalogabile, altrimenti è un bordello; ma con la musica sono arrivato a Franco Battiato e Lucio Dalla.
Sono citati in Messico napoletano.
Vado a Catania, Franco mi porta in un bar e il proprietario appena lo vede mette i suoi brani: “Per favore può togliere la mia musica?”. “Maestro come mai non è mai venuto da noi?”. “E neanche ci tornerò più”. Non sopportava i leccaculo.
Molti descrivono Battiato come ironico.
Come pochi altri, poi si chiudeva nella sua timidezza, ma se entravi in confidenza ti raccontava anche di quando nel 1964 si era ritrovato a Milano senza una lira, aiutato da Gaber; (pausa) anche io non me la passavo benissimo e lui mi disse: “È una catena, oggi aiuto te e in futuro, se ne avrai la possibilità, a tua volta dovrai dare una mano a qualcuno”.
E…
Nel 2000 sono riuscito a seguire alcuni ragazzi di Scampia, uno di loro era un eroinomane mentre oggi è un produttore cinematografico.
Quanto tempo ha lavorato in banca?
Fino al 1980; poi la mia ragazza mi ripeteva: “Se continui con questa vita finirai con un ago nelle vene”. Alla fine lasciai il lavoro e lei lasciò me.
È stata una scelta dura?
Non mi sono licenziato per recitare ma per vivere, per sentirmi libero, con il direttore che ha provato in ogni modo a dissuadermi; (cambia tono) lo stesso direttore, nel 1984, venne a un mio monologo e alla fine mi disse: “Meriti tutto il bene, ti concedo un fido di dieci milioni”. “Non ho niente come garanzia”. “Che me ne fotte”.
Che ha combinato con quei milioni?
Questo è un annoso problema: non sono mai stato in grado di gestire i denari; (ride) nel 1980 presi la 500 e andai a Sanremo per conoscere Renzo Arbore, ero convinto che mi avrebbe capito.
Senza appuntamento?
Macché! Arrivo nel foyer dell’Ariston e in mezzo a tutti parto con un monologo. Lui mi guarda come fossi pazzo. Tempo dopo mi chiama Martone: “Questa sera vengo a teatro con Arbore”. Io preoccupato. Invece alla fine lo stesso Renzo ha cambiato la prospettiva su di me: “Sei bravo, faremo cose insieme”; poi pubblicai il mio primo libro in cui raccontavo storie marginali, di ragazzi proletari; storie amare, crude, dolorose e alla presentazione trovai proprio Renzo.
Dal comico al dramma…
È la mia cifra migliore.
Mentre il cabaret.
Ho pagato la mia fisicità e un lessico difficile da inquadrare; (sorride) un giorno vado a un provino per Raffaella Carrà, ricordo la sua risata, ma niente: “Non ti prenderanno mai, però mi hai fatto passare un quarto d’ora fantastico”.
Ha effettivamente una fisicità importante.
Un bene per il cinema, ma il poeta ha sofferto.
Il cinema l’ha inquadrato da cattivo.
Nel primo film, Blues metropolitano, sentii il regista Piscicelli spiegare al direttore della fotografia: “Se questo capisce come funziona la macchina da presa, se li mangia”. Questa frase mi ha seguito sempre.
E se l’è mangiata?
Mi sono preso grandi soddisfazioni, come con Martone.
Anni fa a Enrico Fierro ha dichiarato: “Dopo L’amore molesto sono andato in crisi”.
A 40 anni esatti, nel 1996, avevo già ottenuto tutto quello che potevo sognare: all’una e mezzo di notte mi telefonava Dalla stupito dai miei testi; Luca De Filippo mi chiamava per gli spettacoli; poi il successo del film. Non ressi più alla popolarità.
Un muro in faccia.
Il ragazzino che aveva perso il padre in una notte, presentò il conto: sbroccai; (abbassa la voce) ho cantato la droga, gli amici morti, ma non ne ho potuto fare uso, perché un giorno sono stato avvertito dal medico: “Sei pieno di anfetamina naturale: se prendi la cocaina ti saltano le coronarie”.
Anche oggi parla velocemente.
Sono così, qualche anno fa ho rivisto una puntata del Costanzo Show, ero ospite, e ho capito perché mi scambiavano per drogato; ma volevo mangiarmi il mondo, non mi sembrava vero di poter stare lì.
Quindi nel 1996.
Non dormivo più, ero fuori di testa; un giorno vado a Genova per presentare il mio libro e sbrocco per una ricercatrice: tre mesi di passione un po’ come Il danno di Louis Malle; (silenzio) mi sentivo arrivato, ero nel frullatore dello spettacolo.
Alla fine.
Mi sono arreso e la resa mi ha salvato la vita: altri due mesi e sarei morto.
Sempre Martone l’ha definita uno degli artisti più interessanti e illuminanti.
E lo ringrazio; (pausa) nel 1997 dovevo recitare in Teatro di guerra, lui regista, ma non riuscivo a presentarmi alle prove. E Mario: “Ci sono 100 persone che vogliono la tua parte ma ci devi essere tu”. Ho resistito, mi sono chiuso una settima e sono tornato; ma lui sapeva che a me di fama e soldi non me ne fregava nulla; mi piaceva lavorare con lui.
Con Martone è andato a Cannes.
Mi sono portato dietro tutta la pletora del quartiere: suocera, amici, moglie, figlio; lì snobbarono Angela Luce.
Chi?
Quelli del Festival, per loro troppo kitsch, e lei si sentiva abbandonata: “Non mi conosce nessuno!”; (ride) allora presi da parte un cameriere: “Quella signora è un’importante artista: ora lei si avvicina, le fa i complimenti e le ricorda della sua canzone, Ipocrisia”; il cameriere esegue alla perfezione la sua parte. E Angela: “Non posso andare da nessuna parte, mi riconoscono pure qua”.
Di quel successo ha messo qualcosa da parte?
Solo le mie opere.
Una casa l’avrà comprata.
No, ed è il rimprovero di mio figlio: “Che cazzo hai fatto con i soldi?”.
Risposta?
Ora sono sul corso di Secondigliano dove sono uno di loro, mentre ai tempi d’oro non ci sarei mai venuto, li avrei snobbati; dopo la caduta ho recuperato le cose belle.
Un suo limite?
Forse risultare troppo naïf, mentre è necessario apparire regolari. Ma quando ci ho provato mi sono venute le bolle, non riesco a rientrare nel politically correct.
A Cannes, con lo smoking, sembrava a suo agio.
Proprio lì ho capito che tanto valeva tenere il posto in banca; (sorride) comunque sono stato pure a Venezia con Abel Ferrara e una volta in albergo ho discusso con la reception perché intendevano portare i miei bagagli in camera: “No, ci penso da solo, non mi fido”.
Ferrara è un altro estremo.
Una delle persone più dolci mai conosciute, anche se non sempre lucido; un pazzo scatenato, un fratello: un giorno gli ho letto una delle mie storie e ha iniziato a piangere mentre mi accarezzava la testa.
Non sempre lucido…
Neanche io lo sono stato, ma nel suo caso chi se ne importa: a uno che ha girato film come Il cattivo tenente non puoi dire nulla; (pausa) noi siamo cresciuti nello stesso ambiente.
Bronx newyorchese e bronx napoletano.
Qualche tempo fa cammino per Secondigliano, mi ferma una signora chiatta: “Voi mi facite arrizza’ ‘o cazzo”. “Signora, siete donna”.
Tradotto?
Le facevo “avere un’erezione”. Voleva dire che le arrivava la mia anima.
È mai andato in terapia?
La mia cura è la gente; è la vita ad avermi salvato.
Qual è la sua ossessione?
Quello di smontare il teorema di nascondersi dietro ai soldi per mettere a tacere le proprie paure. Le paure vanno affrontate. Io questa mattina ho 20 euro in tasca, sono seduto sulla Matiz di mia moglie, ma sono sereno e felice, eppure ho girato uno 007.
Come si è trovato?
Bene, mi sono pure avvicinato a Daniel Craig, l’uomo più solo del mondo: per contratto nessuno poteva andargli incontro. E mangiava solo mele verdi che gli portavano dall’Irlanda.
Ma sul quel set…
Dovevo gestire le mie emozioni sia per il livello di produzione sia perché assistevo a sprechi assurdi: sa quante auto ho visto distruggere?
Troppe…
Un giorno cammino per Portobello, non sapevo chi chiamare per trasmettergli la gioia, invece mi squilla il cellulare, era un amico: “Peppe, è tornato un assegno indietro”.
Maledetti soldi.
Per 007 ho preso 15mila euro.
Lei chi è?
Un diavolo santo, un ragazzo che ha sognato di cambiare il mondo senza farsi cambiare dal mondo; un ragazzo che ha capito quanto è triste la realtà degli adulti.