il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2023
Gli Anni Settanta visti da Gad Lerner (2 articoli)
Quando Ignazio La Russa e Isabella Rauti, il 26 dicembre scorso, decisero di commemorare, in omaggio ai loro genitori, l’anniversario della fondazione del Movimento Sociale Italiano, fu richiesto alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di commentare l’opportunità di quella celebrazione.
La risposta che lei diede nel corso della conferenza stampa di fine anno merita di essere riportata per esteso: “Io credo che il Msi sia un partito che ha avuto il ruolo di traghettare verso la democrazia milioni di italiani che erano usciti sconfitti dalla guerra… Ha avuto anche un ruolo molto importante nel combattere la violenza politica, il terrorismo – penso alle dichiarazioni di Almirante che diceva ‘doppia pena di morte per i terroristi di destra’ – Aveva la responsabilità di accompagnare persone che altrimenti avrebbero fatto scelte diverse”. Non so se Giorgia Meloni sarebbe favorevole a reintrodurre in Italia la pena di morte, sulla scia di Almirante che nel 1982 promosse una raccolta di firme a tale scopo. Credo e spero di no, sebbene oggi a chiederlo, nel suo Paese, sia proprio il premier polacco Morawiecki, suo partner europeo prediletto. Ma è il suo giudizio storico sul Msi che voglio prendere in parola, anche nelle inedite ammissioni che contiene. Lei sa bene a chi si riferisce quando sottolinea la delicata responsabilità di “accompagnare persone che altrimenti avrebbero fatto scelte diverse”, cioè di natura violenta ed eversiva. La prendo sul serio a ragion veduta. Se non altro perché, sul fronte opposto in cui militavo negli anni Settanta, posso testimoniare che anche Lotta Continua operò (non senza rischi e accuse di tradimento) per scongiurare che altre centinaia di giovani intraprendessero la via della lotta armata. L’Italia, lo sappiamo, è un Paese in cui è stato difficile incanalare nell’alveo delle regole democratiche – troppo spesso violate pure dall’alto degli apparati statali – militanti convinti della necessità del ricorso alla violenza politica. Ma una volta riconosciuta l’esistenza del problema, bisogna saper essere severi con se stessi.
Questa definizione benevola di un Msi virtuoso traghettatore dei post-fascisti verso l’approdo a una destra democratica si scontra con troppe circostanze di fatto. Basti qui citare degli atti parlamentari di facile reperimento. Subito dopo il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, nell’aprile 1967 (diecimila arresti nelle prime ore, seguiti da sette anni di dittatura), il vicesegretario e capogruppo del Msi, Ernesto De Marzio, così si espresse nell’aula di Montecitorio: “Onorevoli colleghi, io sono entusiasta di quanto avvenuto in Grecia. Il nostro governo non può non giudicare positivamente avvenimenti i quali mirano a impedire al comunismo di insediarsi in un’area geografica così prossima al nostro Paese”. Per le strade, intanto, i missini esultavano al grido minaccioso di “Ankara, Atene, adesso Roma viene”. Nel settembre 1973, lo stesso De Marzio, sempre parlando alla Camera, salutò con queste parole il golpe del generale Pinochet in Cile (oltre tremila morti): “I militari cileni hanno agito in conformità al loro dovere patriottico”.
Non è dunque una forzatura sostenere che i vertici del Msi negli anni Settanta rivendicavano in Parlamento la propria vocazione golpista e antidemocratica. È altresì certificato da diverse sentenze definitive che fuoriusciti dal Movimento sociale italiano perpetrarono in quegli anni numerose stragi, agendo grazie alla copertura di simpatizzanti missini collocati ai vertici delle forze armate e dei servizi segreti; alcuni dei quali vennero poi eletti in Parlamento.
Giorgia Meloni non era ancora nata, ma ciò non la autorizza a edulcorare la storia e l’ideologia del partito a cui scelse di aderire giovanissima.
Sappiamo che, quando si iscrisse quindicenne al Fronte della Gioventù, Giorgia Meloni entrò in relazione con militanti protagonisti di quella stagione violenta. La memoria che le trasmisero – è lei stessa a ricordarlo spesso – pesò assai nella sua formazione politica. Cito per tutti Marcello De Angelis, condannato per banda armata e oggi responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio. Quanto importante sia stato per Giorgia Meloni quel legame giovanile, lo si legge in dettaglio nell’ultimo libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia (Chiarelettere). Vi si trovano altri nomi di persone a lei vicine che all’epoca oscillarono sul crinale fra “doppiopetto” e scelta “antisistema”. E che oggi rivestono ruoli istituzionali.
Non importa qui stabilire se tale imprinting consenta tuttora di annoverare Giorgia Meloni quale esponente di un post-fascismo evoluto, o se invece vada considerata definitiva la sua conversione a una destra democratica. Ma è significativo che lei stessa riconosca, sia pure solo in un accenno, l’inevitabile tortuosità di quel passaggio, tutt’altro che risolto una volta per tutte. Non esistono nella natura umana metamorfosi tali da recidere i legami col proprio vissuto. I sentimenti nostalgici che Giorgia Meloni ha tutto l’interesse di minimizzare non possono essere liquidati come innocuo residuo del passato. Il percorso accidentato dei militanti missini che ai giorni nostri aspirano a trasformarsi in classe dirigente, gli imporrebbe di esprimersi sulle loro radici senza reticenza, com’è toccato fare agli ex comunisti per diventare davvero ex. Farlo aiuterebbe Giorgia Meloni a interrogarsi anche sul frustrante senso di “esclusione” che spesso dichiara di aver sofferto e al quale ha voluto ribellarsi. Dovrà pur ammettere che qualche motivazione ce l’aveva.
Meritano certo rispetto le parole con cui ha commemorato l’atroce morte dei fratelli Mattei nel rogo di Primavalle del 1973, a opera di militanti di Potere Operaio. Ciò che vale ugualmente per i tre giovani missini assassinati a colpi di pistola nel 1978 davanti alla sezione di Acca Larentia (i primi due da killer di sinistra, il terzo poche ore dopo da un poliziotto nel corso di una manifestazione di protesta). Tornerò sulle ripercussioni provocate da quel delitto. Ma intanto è significativo che proprio Giorgia Meloni, nel 2012, cioè quando era già stata vicepresidente della Camera e ministra nel governo Berlusconi, abbia presenziato con Federico Mollicone alla polemica sostituzione della lapide che ricorda quell’eccidio. Considerando troppo generica la targa che si limitava a ricordarli in quanto “vittime di violenza politica”, ne posero un’altra che li definiva “assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato”. Con una firma inequivocabile: “I camerati”. Ripeto, era il 2012. Erano passati 34 anni dai fatti, ma l’autorappresentazione da incidere nella lapide restava quella.
Oggi “camerati” non si usa più, almeno in pubblico. Si preferisce offuscare il passato ricorrendo al più neutro “patrioti”. Ma la generazione che fu ribelle antisistema e che ora ama definirsi “generazione Tolkien” dovrebbe trovare il coraggio dell’autoanalisi. Altrimenti il suo richiamo alla necessità di una pacificazione, ora che hanno vinto, figurerà meramente strumentale. Se davvero – e voglio crederlo – hanno vissuto un percorso di adesione al patto costituzionale, non è stato certo il Msi a traghettarceli. Provandoci, favorirebbero anche una riflessione sincera sulle degenerazioni che hanno macchiato l’antifascismo militante nel corso degli anni Settanta. Di esse, per completezza, scriverò domani.
(1. Continua)
***
“La Resistenza ce l’ha insegnato, uccidere i fascisti non è reato”. “Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco”. “Tutti i fascisti come Ramelli con una riga rossa fra i capelli”.
Si gridavano eccome, questi slogan crudeli, nei cortei della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Chi può negarlo? E a poco valsero le critiche di chi già allora all’interno del movimento ne evidenziava la disumanità, con l’unico risultato di venir tacciato di “opportunismo di destra” da chi guidava le manifestazioni di piazza, cioè i servizi d’ordine. A partire dalla strage di piazza Fontana del 1969, fino a toccare il suo culmine alla metà degli anni Settanta, un di più di efferatezza finì per screditare l’esperienza dell’antifascismo militante. S’impose un compiacimento morboso nell’esibire la faccia feroce del guerriero pronto a uccidere il nemico. E ciò avveniva quando ancora, a sinistra, la stagione degli omicidi politici intenzionali – la lotta armata – era di là da venire. Negli scontri con i fascisti venivano usati la spranga e il fuoco delle molotov, mai il coltello. Le Brigate Rosse perpetrarono il loro primo duplice omicidio nel 1974 durante un’irruzione nella sede del Msi di Padova, ma dichiararono essersi trattato di “un incidente sul lavoro”. Fu solo nel gennaio 1978 che a Roma, in via Acca Larenzia, i giovani di destra furono presi di mira a colpi di pistola con l’esplicita volontà di uccidere.
Naturalmente la viltà dell’agguato a colpi di chiave inglese che stroncò la vita di Sergio Ramelli a Milano nel 1975 non trova attenuanti nel fatto che volessero colpirlo senza ucciderlo. Tantomeno trova attenuanti nel suo corollario tragico e poco noto: il suicidio di Roberto Grassi, l’ideatore dell’aggressione, avvenuto nel 1981. La degenerazione dell’antifascismo militante, sia nel linguaggio che nella parossistica “caccia al fascio”, trova solo parziale spiegazione nell’idea allora diffusissima che la violenza svolgesse l’inevitabile funzione di levatrice della storia. Ciò veniva teorizzato a destra come a sinistra da chiunque aspirasse a cambiamenti politici radicali. Dovremo pur chiederci come mai tale pulsione mortifera giunse a ossessionare tanti giovani italiani, dando luogo a quella che Luigi Manconi, nel libro appena scritto con Gaetano Lettieri, Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia (il Saggiatore) definisce una vera e propria “lotta fratricida”. Va pur ricordato, però, come tale sovreccitata escalation abbia dato luogo a un moto di ripulsa che iniziò a diffondersi tra i militanti del movimento soprattutto dopo Acca Larenzia, percepita come terribile punto di non ritorno. Il quotidiano dell’ormai disciolta Lotta Continua, che pure aveva avuto tanti compagni uccisi dai fascisti, se ne fece portavoce. Lo ricordo per averlo vissuto in prima persona. Di fronte a quelle tre vite spezzate di nostri coetanei avversari politici, definimmo subito “L’assurda ‘azione’ del Tuscolano” (questo il primo titolo) come “una perdita del comune discernimento che – ed è il rischio più grave – può diventare irreversibile e trasformare la battaglia antifascista in un regolamento di conti”. Parlammo di “un abisso incolmabile”, di “salto nel buio catastrofico”. Quella notte stessa, a Milano, Radio Popolare ruppe un tabù. Nel corso del “microfono aperto” mandò in onda, senza censurarle, alcune telefonate di giovani di destra, che erano costernati quanto noi. Era la prima volta che si svolgeva un confronto diretto, non solo uno scambio di invettive, tra militanti di quelli che venivano chiamati “gli opposti estremismi”. O meglio non succedeva da dieci anni, cioè da quando, nel marzo 1968, Giorgio Almirante aveva personalmente guidato un assalto squadrista all’università di Roma occupata, forse anche per dissuadere gli studenti missini attratti dal movimento di rivolta.
Lotta Continua, nei giorni successivi al delitto di Acca Larenzia, pubblicò quelle che vennero definite “le telefonate dello scandalo”, seguite da un acceso dibattito nel quale finalmente trovavano spazio argomentazioni non solo di opportunità politica, ma di natura morale. Naturalmente non mancarono le accuse di “eccesso umanitario”. Ma intanto, assieme alla pratica della caccia all’uomo, vennero sottoposti a critica anche gli slogan truculenti dei cortei.
Torno alla “dinamica fratricida” e “cannibalica” evocata da Manconi, che per un breve periodo fu responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. A suo parere il Sessantotto, fallito l’obiettivo di spodestare i padri, si sarebbe ridotto in scontro per l’egemonia tra “fratelli separati” che, soprattutto dopo la strage di piazza Fontana, diventeranno “nemici assoluti”.
È un’ipotesi suggestiva, ma ancora non spiega come mai in tali frangenti la sinistra extraparlamentare abbia goduto del sostegno pubblico di alcuni fra i più eminenti protagonisti della Resistenza antifascista. Cito fra gli altri Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Enzo Enriquez Agnoletti, Riccardo Lombardi, Umberto Terracini, Franco Antonicelli, che si fecero promotori di una campagna per la messa fuori legge del Msi. Non va dimenticato che tre Paesi a noi vicini, Grecia, Spagna e Portogallo, erano sottoposti a dittature di stampo fascista. E che nel 1972, di fronte alle lotte sindacali e all’avanzata delle sinistre, il filoatlantico Almirante nei comizi incitava a “prepararsi allo scontro fisico con le sinistre”. Oggi sappiamo che Pier Paolo Pasolini non era un visionario quando denunciava la possibilità di un colpo di Stato. Nel suo Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi) lo storico Guido Panvini cita i verbali di una direzione del Pci del 1971 riunita dopo che in pochi giorni era stato accoltellato il segretario della Camera del lavoro di Lecco, assalite la sede Uil di Milano e la federazione comunista di Palermo, senza alcun intervento della polizia. Fu il mite Umberto Terracini, in quella sede, a proporre, vista l’inutilità di “rispondere all’indomani di ogni azione squadrista”, “una giornata di battaglia dando l’indicazione di mettere a posto, luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi”. Proposta discussa e scartata, ma quello era il clima. Il Msi, per giunta, tentava di incolpare la sinistra extraparlamentare degli attentati senza firma che mietevano vittime innocenti. Nel 1973 (l’anno dello stupro fascista di Franca Rame) un ex missino milanese, Nico Azzi, si mise in bella mostra con una copia di Lotta Continua in tasca sul treno Torino-Roma prima che una bomba gli esplodesse tra le mani, smascherandolo.
Tutto ciò, naturalmente, non giustifica l’involuzione dell’antifascismo militante, ma ne spiega il contesto storico. Il Msi continuava a rivendicare la superiorità del regime fascista rispetto al sistema democratico, tanto che Almirante nel 1972 firmò un volume di comparazione apologetica intitolato I due ventenni. La base del partito veniva preparata a scatenarsi in caso di vittoria delle sinistre. E tale disposizione antisistema si combinava senza imbarazzo con ricorrenti tentativi di condizionare da destra gli equilibri governativi e l’elezione dei presidenti della Repubblica. Tanti padri della Resistenza e della Repubblica diedero il loro appoggio all’antifascismo militante perché loro per primi si rendevano conto dei danni provocati dalla mancata epurazione degli apparati dello Stato nel dopoguerra, e dalla conseguente protezione di cui continuava a beneficiare l’azione squadristica. Se davvero è arrivato il momento di fare i conti con le ferite non rimarginate del Novecento italiano, è con questi dati di fatto che anche la destra deve trovare il coraggio di misurarsi.
(2. fine)
“La Resistenza ce l’ha insegnato, uccidere i fascisti non è reato”. “Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco”. “Tutti i fascisti come Ramelli con una riga rossa fra i capelli”.
Si gridavano eccome, questi slogan crudeli, nei cortei della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Chi può negarlo? E a poco valsero le critiche di chi già allora all’interno del movimento ne evidenziava la disumanità, con l’unico risultato di venir tacciato di “opportunismo di destra” da chi guidava le manifestazioni di piazza, cioè i servizi d’ordine. A partire dalla strage di piazza Fontana del 1969, fino a toccare il suo culmine alla metà degli anni Settanta, un di più di efferatezza finì per screditare l’esperienza dell’antifascismo militante. S’impose un compiacimento morboso nell’esibire la faccia feroce del guerriero pronto a uccidere il nemico. E ciò avveniva quando ancora, a sinistra, la stagione degli omicidi politici intenzionali – la lotta armata – era di là da venire. Negli scontri con i fascisti venivano usati la spranga e il fuoco delle molotov, mai il coltello. Le Brigate Rosse perpetrarono il loro primo duplice omicidio nel 1974 durante un’irruzione nella sede del Msi di Padova, ma dichiararono essersi trattato di “un incidente sul lavoro”. Fu solo nel gennaio 1978 che a Roma, in via Acca Larenzia, i giovani di destra furono presi di mira a colpi di pistola con l’esplicita volontà di uccidere.
Naturalmente la viltà dell’agguato a colpi di chiave inglese che stroncò la vita di Sergio Ramelli a Milano nel 1975 non trova attenuanti nel fatto che volessero colpirlo senza ucciderlo. Tantomeno trova attenuanti nel suo corollario tragico e poco noto: il suicidio di Roberto Grassi, l’ideatore dell’aggressione, avvenuto nel 1981. La degenerazione dell’antifascismo militante, sia nel linguaggio che nella parossistica “caccia al fascio”, trova solo parziale spiegazione nell’idea allora diffusissima che la violenza svolgesse l’inevitabile funzione di levatrice della storia. Ciò veniva teorizzato a destra come a sinistra da chiunque aspirasse a cambiamenti politici radicali. Dovremo pur chiederci come mai tale pulsione mortifera giunse a ossessionare tanti giovani italiani, dando luogo a quella che Luigi Manconi, nel libro appena scritto con Gaetano Lettieri, Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia (il Saggiatore) definisce una vera e propria “lotta fratricida”. Va pur ricordato, però, come tale sovreccitata escalation abbia dato luogo a un moto di ripulsa che iniziò a diffondersi tra i militanti del movimento soprattutto dopo Acca Larenzia, percepita come terribile punto di non ritorno. Il quotidiano dell’ormai disciolta Lotta Continua, che pure aveva avuto tanti compagni uccisi dai fascisti, se ne fece portavoce. Lo ricordo per averlo vissuto in prima persona. Di fronte a quelle tre vite spezzate di nostri coetanei avversari politici, definimmo subito “L’assurda ‘azione’ del Tuscolano” (questo il primo titolo) come “una perdita del comune discernimento che – ed è il rischio più grave – può diventare irreversibile e trasformare la battaglia antifascista in un regolamento di conti”. Parlammo di “un abisso incolmabile”, di “salto nel buio catastrofico”. Quella notte stessa, a Milano, Radio Popolare ruppe un tabù. Nel corso del “microfono aperto” mandò in onda, senza censurarle, alcune telefonate di giovani di destra, che erano costernati quanto noi. Era la prima volta che si svolgeva un confronto diretto, non solo uno scambio di invettive, tra militanti di quelli che venivano chiamati “gli opposti estremismi”. O meglio non succedeva da dieci anni, cioè da quando, nel marzo 1968, Giorgio Almirante aveva personalmente guidato un assalto squadrista all’università di Roma occupata, forse anche per dissuadere gli studenti missini attratti dal movimento di rivolta.
Lotta Continua, nei giorni successivi al delitto di Acca Larenzia, pubblicò quelle che vennero definite “le telefonate dello scandalo”, seguite da un acceso dibattito nel quale finalmente trovavano spazio argomentazioni non solo di opportunità politica, ma di natura morale. Naturalmente non mancarono le accuse di “eccesso umanitario”. Ma intanto, assieme alla pratica della caccia all’uomo, vennero sottoposti a critica anche gli slogan truculenti dei cortei.
Torno alla “dinamica fratricida” e “cannibalica” evocata da Manconi, che per un breve periodo fu responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. A suo parere il Sessantotto, fallito l’obiettivo di spodestare i padri, si sarebbe ridotto in scontro per l’egemonia tra “fratelli separati” che, soprattutto dopo la strage di piazza Fontana, diventeranno “nemici assoluti”.
È un’ipotesi suggestiva, ma ancora non spiega come mai in tali frangenti la sinistra extraparlamentare abbia goduto del sostegno pubblico di alcuni fra i più eminenti protagonisti della Resistenza antifascista. Cito fra gli altri Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Enzo Enriquez Agnoletti, Riccardo Lombardi, Umberto Terracini, Franco Antonicelli, che si fecero promotori di una campagna per la messa fuori legge del Msi. Non va dimenticato che tre Paesi a noi vicini, Grecia, Spagna e Portogallo, erano sottoposti a dittature di stampo fascista. E che nel 1972, di fronte alle lotte sindacali e all’avanzata delle sinistre, il filoatlantico Almirante nei comizi incitava a “prepararsi allo scontro fisico con le sinistre”. Oggi sappiamo che Pier Paolo Pasolini non era un visionario quando denunciava la possibilità di un colpo di Stato. Nel suo Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi) lo storico Guido Panvini cita i verbali di una direzione del Pci del 1971 riunita dopo che in pochi giorni era stato accoltellato il segretario della Camera del lavoro di Lecco, assalite la sede Uil di Milano e la federazione comunista di Palermo, senza alcun intervento della polizia. Fu il mite Umberto Terracini, in quella sede, a proporre, vista l’inutilità di “rispondere all’indomani di ogni azione squadrista”, “una giornata di battaglia dando l’indicazione di mettere a posto, luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi”. Proposta discussa e scartata, ma quello era il clima. Il Msi, per giunta, tentava di incolpare la sinistra extraparlamentare degli attentati senza firma che mietevano vittime innocenti. Nel 1973 (l’anno dello stupro fascista di Franca Rame) un ex missino milanese, Nico Azzi, si mise in bella mostra con una copia di Lotta Continua in tasca sul treno Torino-Roma prima che una bomba gli esplodesse tra le mani, smascherandolo.
Tutto ciò, naturalmente, non giustifica l’involuzione dell’antifascismo militante, ma ne spiega il contesto storico. Il Msi continuava a rivendicare la superiorità del regime fascista rispetto al sistema democratico, tanto che Almirante nel 1972 firmò un volume di comparazione apologetica intitolato I due ventenni. La base del partito veniva preparata a scatenarsi in caso di vittoria delle sinistre. E tale disposizione antisistema si combinava senza imbarazzo con ricorrenti tentativi di condizionare da destra gli equilibri governativi e l’elezione dei presidenti della Repubblica. Tanti padri della Resistenza e della Repubblica diedero il loro appoggio all’antifascismo militante perché loro per primi si rendevano conto dei danni provocati dalla mancata epurazione degli apparati dello Stato nel dopoguerra, e dalla conseguente protezione di cui continuava a beneficiare l’azione squadristica. Se davvero è arrivato il momento di fare i conti con le ferite non rimarginate del Novecento italiano, è con questi dati di fatto che anche la destra deve trovare il coraggio di misurarsi.
(2. fine)