La Lettura, 10 giugno 2023
Biografia di Blaise Pascal
Ricordare Blaise Pascal oggi, nell’epoca dell’overdose di informazioni e dell’intelligenza artificiale generativa, non è soltanto il dovuto ossequio a uno dei pensatori più originali e profondi della tradizione, sembra essere anzi un’operazione di essenziale importanza, dal punto di vista intellettuale, ma anche pratico e in largo senso politico. Dovremmo chiederci: che cosa ci insegna ancora questo ragazzo geniale, nato il 19 giugno 1623 (4 secoli fa) e morto a 39 anni, dopo avere rivoluzionato la matematica, la fisica, la teologia e anche lo stile filosofico del tempo? Vorrei suggerire una risposta, basata non tanto o soltanto su ciò che Pascal ha detto ma su ciò che ha fatto, e sul suo modo d’essere, per cui abbiamo i resoconti in parte agiografici dei famigliari (in particolare la sorella Gilberte), e molti documenti e testimonianze, accuratamente riprodotti e commentati nelle Opere complete, a cura di Maria Vita Romeo (Bompiani, 2020).
La storia inizia con un bambino che disegna, e disegnando scopre, da solo, la geometria: strani oggetti che chiama «rotondi» (circonferenze), «barre» (linee), e da cui ricava, figuralmente, le dimostrazioni conseguenti, fino a «scoprire» la 32ª proposizione degli Elementi di Euclide. Il padre, sconvolto, lo presenta all’Accademia Mersenne, di cui diventa membro a dodici anni. Da qui incomincia il vorticoso percorso intellettuale, non tanto di un bambino prodigio, ma di un «genio spaventoso», come scrisse Chateaubriand. A sedici anni scopre le «meravigliose proprietà» dell’esagono inscritto in una conica (il «teorema di Pascal»). A diciannove escogita la «macchina aritmetica», progenitrice delle calcolatrici moderne, e di tutte le macchine «intelligenti» che seguirono, capaci di «tradurre in calcolo il pensiero», come si disse allora.
Non smette di fare domande, trovando soluzioni definitive. Il vuoto non esiste in natura, oppure sì? Come agisce esattamente un punto di pressione sull’acqua? Ma in ultimo che cosa è «vuoto», e che cosa è «pressione»? D’altra parte, innegabilmente, esistono magie nei numeri, come i «quadrati magici», in cui la somma di ogni riga, colonna e diagonale dà lo stesso risultato: come si generano? Ed esistono anche i quadrati magico-magici, nota Pascal: se togliete la cornice (i numeri del contorno), quel che resta è ancora un quadrato magico, e così si può dire che in essi ogni magia ne genera altre. Forse la sua più nota curiosità matematica è relativa al cosiddetto triangolo di Pascal (o di Tartaglia). Incominciate dall’1, poi sommate quel che si trova a destra e a sinistra e costruite la linea 1 1, quindi sommate con la stessa regola a + b e ottenete 1 2 1, così procedendo ottenete 1 3 3 1, e oltre: il vostro risultato sarà un triangolo creato da una semplice regola costruttiva. Anche questo è solo un inizio proiettato verso il futuro, perché l’uso ricorsivo della regola genera, molto dopo, i famosi «frattali», da alcuni considerati la forma universale del caos, in cui ogni frammento è figura dell’insieme.
La matematica inizia spesso come un gioco, di cui poi si scoprono applicazioni sorprendenti. Il giovane Pascal si chiede: a che cosa servono gli scherzi e le bizzarrie dei numeri, le sorprendenti regolarità delle forme? Nel suo Traité du triangle arithmétique esplora l’uso del triangolo per gli ordini numerici, per trovare le potenze dei binomi, per lo studio delle combinazioni, e per «la divisione della posta in gioco»: se due giocatori abbandonano la partita, come si dividono le poste in base a vincite e perdite? Trovando la soluzione, Pascal approfondisce il calcolo delle probabilità, che contribuisce a fondare, insieme a Pierre Fermat, e più tardi concepisce la famosa «scommessa» che leggiamo nel frammento 681 dei Pensieri.
Nello scommettere sull’esistenza di Dio – «se vincete, vincete tutto» (perché Dio premierà la vostra fede), «se perdete, non perdete nulla» (perché se Dio non c’è, non c’è neppure castigo eterno) – anticipando la teoria dei giochi, un caposaldo della razionalità moderna, Pascal conclude che l’utilità attesa per il credente è maggiore: «Scommettete dunque che Dio esiste, senza esitare!».
Il programma è sicuramente valido per un tempo e un contesto in cui si discuteva di un solo Dio cristiano. È stato notato che se in gioco ci sono più ipotesi (cristianesimo, islam, induismo), la scommessa a favore del Dio cristiano non è vantaggiosa (l’eventuale Dio non-cristiano non sarà contento) e l’utilità attesa aumenta se non si crede a nessuno. Ma Pascal ha chiaro in mente che tutto dipende da come si predispone il calcolo. Questa come altre «prove» relative a Dio postula una inclinazione preliminare a favore della fede.
La seconda parte della vita di Pascal è dominata dalla religione, a cui si dedica con la stessa passione e precisione delle sue ricerche matematiche. Aderisce all’integralismo giansenista (se ci si salva è solo per la grazia di Dio) e ne diventa strenuo difensore, contro ciò che giudica il «lassismo» dei gesuiti. Dal 1646 in avanti (epoca della sua prima conversione) gli interessi religiosi accompagnano quelli scientifici, e acquistano a mano a mano un’importanza sempre maggiore, specie dopo il 1654, in cui avviene la seconda e definitiva «illuminazione», e Pascal inizia a pensare che la sua vita debba essere dedicata alla difesa del cristianesimo. La sua opera più nota, la raccolta di circa 800 frammenti, ordinati dopo la sua morte con il titolo Pensées, doveva costituire una vasta Apologia della religione cristiana. Le Lettere provinciali, pubblicate tra il 1656 e il 1657 per difendere il giansenismo di Port Royal, e denunciare gli errori della morale gesuitica, lo confermano come un teologo sottile e brillante, a volte ironico, facendone uno degli scrittori-filosofi più celebrati. Ma è facile vedere che non c’è nessuna frattura tra il Pascal scienziato e religioso. Gli interessi religiosi non oscurano quelli scientifici. D’altra parte come nota Maria Vita Romeo, anche nelle ricerche più tecniche, anche quando si tratta di quadrati e triangoli, l’interesse di Pascal va verso le conseguenze filosofiche delle soluzioni scientifiche. Ed è la sua naturale inclinazione per la filosofia a portarlo verso la fede.
Dunque: che cosa ci insegna ancora il «genio spaventoso» di Pascal? La risposta è in fondo semplice. Nella sua vita prima ancora che nelle sue teorie, Pascal è stato un grande filosofo della mente, un esploratore dell’intelligenza umana, in tutti i suoi aspetti. Viene spesso interpretato come teorico di celebri dualismi: tra fede e ragione, tra esprit de finesse ed esprit de géométrie. Ma non è esatto concepire queste differenze come opposizioni, e d’altra parte lui stesso fu un grande testimone di come il calcolo, nella vita di un vivente (non di una macchina), sia capace di arrivare alla «finezza» intellettuale, che coglie i «principi» (si veda il frammento 671 dei Pensieri), fino a riconoscere i propri limiti, e con ciò fare avanzare le «ragioni del cuore», le quali sono appunto ragioni, cioè motivazioni intellettuali e (se ripensiamo alla scommessa) anche razionali.
Se rileggiamo il frammento su esprit de finesse ed esprit de géométrie, ci accorgiamo che Pascal ha molto da dire alle moderne teorie sull’intelligenza artificiale. Le due formule corrispondono a diversi livelli o gradi di intelligenza, passaggi successivi di uno stesso percorso. Si incomincia con la selezione o creazione dei dati (il disegno di Blaise bambino), si procede con la scoperta delle loro connessioni secondo regole (la passione combinatoria del ragazzo che gioca con i numeri e le forme). Fino a questo punto le macchine ci aiutano. Ma non arrivano alle brillanti e innovative soluzioni di Pascal: anzi di norma le macchine sono conformiste, si basano su un sapere depositato, con tutte le sue falsità ed errori. Per il passo successivo occorre l’esprit de finesse, che non è esattamente «il cuore», ma – dice Pascal – è percezione dei «principi», ossia «le regole delle regole», ciò che delle regole ci fa cogliere il destino etico, politico, umano.
Non riusciremmo mai a fronteggiare la quantità di dati da cui siamo afflitti senza l’aiuto delle macchine, pronipoti della «macchina aritmetica» di Pascal. L’intelligenza artificiale è utile, in molti campi, ci offre di risparmiare fatica e tempo. Ma come dicono gli esperti è ancora indietro. Dimostrazione ineccepibile la famosissima ChatGpt, il generative pretrained transformer, l’IA aperta a tutti e a disposizione di tutti. Chi l’ha provata sa bene che è pretrained (educata) molto male: fa errori, dice inesattezze e falsità, proclama di avere consultato milioni di fonti, ma a quanto sembra in modo molto superficiale. Ma non bisogna lamentarsi, la macchina ha bisogno di essere educata meglio. Come? La «cultura» di cui disponiamo è davvero in grado di creare la «buona macchina»? Credo di no. Allora scopriamo che il ragazzo geniale avrebbe qualcosa da suggerire a chi sta educando le macchine, e a noi che ancora dobbiamo imparare a usarle.
Quel che Pascal ci insegna è che nessuna macchina del pensiero garantisce risultati veri. Non bastano dati, e regole di elaborazione. Le regole vanno usate, e nell’essere usate (terzo livello) diventa essenziale che il dato sia «vero», nel senso più ampio del termine (risponda a un vero bisogno, non sia manipolato e incompleto, abbia «veramente» obiettivi non distruttivi dell’intelligenza stessa, e di chi la usa).
Ecco dunque il programma in largo senso politico: si tratta di affrontare il mondo dell’informazione educando le macchine e noi stessi. Pascal non era molto ottimista circa la natura umana, ma certo fino a quando, interpretando male la sua eredità, si dimentica la finezza dei principi filosofici, e il congiungersi delle questioni morali e di quelle intellettuali nella ricerca e trasmissione della verità, non possiamo sperare di rendere efficaci le macchine ed evitare che moltiplichino con potenza inarrestabile i difetti degli umani.