La Lettura, 11 giugno 2023
Su "L’avvelenatore" di Emanuele Altissimo (Bompiani)
Plus est hominem extinguere veneno, quam occidere gladio. È un atto più grave uccidere un uomo col veleno che con la spada. Parola, anzi legge, di Antonino Pio, uno dei grandi imperatori romani dell’età dell’oro nonché padre adottivo di Marco Aurelio. Ma è un po’ tutta la storia dell’Occidente a traboccare di misfatti e venefici, dalla cicuta di Socrate a quella di Seneca, da Claudio ucciso con un fungo letale da Agrippina a Britannico fatto fuori dal fratellastro Nerone. E ancora, i misteriosi decessi dei papi, i suicidi immaginari di Romeo e Madame Bovary e l’ingegno libresco dei benedettini nel Nome della rosa testi-moniano svariati, curiosissimi, metodi d’avvelenamento, dall’aspide alla camicia italiana di Lucrezia Borgia, dall’industrializzazione al polonio-210. E se sono state scritte migliaia di pagine sulla storia dei veleni e la loro classificazione — aconito, antimonio, arsenico, belladonna, cianuro, cicuta, curaro e via su e giù per l’alfabeto un bel po’ di volte — qui ci soffermiamo sulla regina dei veleni lenti e invisibili.
«Com’è che se c’è un omicidio, il primo sospettato è sempre il coniuge?», pare ironizzasse George Orwell a proposito dei sacri vincoli domestici. Ma si sa, il tempo vola, le cose cambiano e oggi le prime ipotesi ricadono persino su nonni, figli, cugini e nipotini. Sempre sulla famiglia, comunque, questa singolare roccaforte della tribù patriarcale; un veleno che non lascia (quasi) mai tracce ma s’infiltra nella mente e nelle carni della vittima, stilla dopo stilla.
Tra colline a noccioleti, filari d’uva e biche di fieno, si spalancano le campagne piemontesi di Borgo Spirito, un paesino di poche case e pochissimi servizi. Ci è cresciuto Arno prima di trasferirsi a Torino dove si è laureato in Diritto di famiglia (trovando un ottimo impiego) e ne ha messa su una tutta sua con Linda, la moglie poliziotta, e la piccola Greta.
Nella tenuta della sua infanzia, a ridosso del grande bosco, c’è rimasto suo padre, Furio Paternoster. Solitario e schivo per i membri della sua (ex) famiglia, nel paese è invece un medico amato e rispettato come una figura d’altri tempi. Con lui, Arno intrattiene rapporti nervosi ed esclusivamente necessari dopo il doloroso divorzio con sua madre. Furio e Arno non si frequentano, non s’incontrano da anni ma per qualche ragione stanotte, un’altra notte bianca, il figlio risponde al primo squillo proveniente da un numero sconosciuto. Stanotte, con Greta assopita nel seggiolino della macchina, mentre avanza sul viale della villa illuminato dai lampeggianti con il cuore dappertutto, Arno affronta i primi fulmini della sua memoria ribelle: l’istantanea del momento in cui ha cancellato il numero di Furio dal cellulare. «Dieci cifre che non ero mai riuscito a scordare, che mi tornavano in mente senza preavviso, come il ritornello di una canzone. Ma continuavo a ripetermi che c’era tempo, c’era sempre tempo, un giorno avrei trovato il coraggio di comporle, di aspettare la voce dall’altra parte e infine di dire qualcosa, qualsiasi cosa per ricominciare». Eppure quel pensiero non si è mai fatto vero fino a quando, proprio stanotte, sul retro della grande villa, tra gli enormi pioppi secolari, Arno finalmente rincontra suo padre.
Il corpo del dottor Paternoster giace immobile sullo spiazzo di cemento quattro piani sotto alla terrazza. L’ipotesi di un suicidio insegue le voci dei numerosi conti insoluti del dottore e, suo malgrado, il figlio è costretto a confrontarsi con i misteri del recente passato dell’uomo. Chi era davvero Furio Paternoster? Un mosaico di deposizioni, confessioni e chiacchiere degli abitanti, dei contadini, del sindaco, dell’altra figlia raccontano un individuo in contrappunto con la figura che emerge dal colloquio interiore che Arno ha con sé stesso. «A sei anni hai paura di tuo padre. A dodici lo invidi, a diciannove lo aiuti a morire la prima volta, ripeti a te stesso che non hai scelta, devi salvarti, anche se questo significa che sarai solo. E così a trenta non sai più chi sei». Salvarsi da cosa? Cos’è accaduto tra i due? Un fatto enormemente minuto che ha lasciato una terribile traccia fantasma nella testa di Arno. Ma soprattutto, qual è la prima morte del padre?
Poi, come accade durante le indagini nei casi di cronaca, gli esami autoptici sul corpo di Furio svelano un elemento inedito. Un segno pre mortem. «Quando è stata l’ultima volta che ha visto suo padre?». È così che il maresciallo Di Pietro spalanca la botola del dubbio sotto i piedi di Linda, spezzata tra l’amore per il marito e la professione, e precipita Arno in uno spazio oscuro capace di farlo dubitare persino di sé stesso. Hai mai desiderato che tuo padre morisse? È con un movimento vertiginoso che sui giornali locali la domanda sul padre si rovescia sul figlio: chi è Arno Paternoster?
Sosteneva Paracelso che di per sé nulla è veleno, ma è la dose che fa il veleno. Verrebbe da dire che è nella misura in cui assorbiamo la famiglia — tra le occulte ostilità e i nodi faticosi e amari — che si dà salvezza, guarigione o morte.
Se non si provasse il cieco terrore delle nomenclature, L’avvelenatore sarebbe un romanzo del mistero nel senso più infero del termine. Un dispositivo minuto in cui il meccanismo è esibito eppur non si vede, dove l’interiore gioco di specchi è un mero inganno anamorfico. Su tutto una bella voce di cristallo, d’una trasparenza ipnotica per un romanzo elegante in cui non c’è sillaba che non sveli una sfumatura insolita del quadro.
Dopo le pagine intime di Luce rubata al giorno, Emanuele Altissimo torna con una storia di conflitti inespressi, diritti e obliqui, affondando senza misericordia le mani nel petto oscuro e palpitante della famiglia. Laggiù, tra sentori d’insania ristagnante si scorgono i segni, le fratture, gli strappi. E i morsi del veleno, certo. Ma se ogni veleno ha un antidoto, contro certe tossine non c’è scampo. Perché non esiste cuore di figlio in cui non si nasconda lo spettro di un padre.