Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 11 Domenica calendario

Intervista a Benôit Philippon - su "La centenaria con la pistola" (Ponte alle Grazie)

Nel film di Mario Monicelli del 1968 La ragazza con la pistola è la giovane siciliana Assunta Patané, interpretata da Monica Vitti, che insegue per tutta l’Inghilterra l’uomo che l’ha sedotta e abbandonata. Nel romanzo di Benoît Philippon la protagonista diventa La centenaria con la pistola, Berthe Gavignol, 102 anni, che nel suo casolare dell’Auvergne, cuore della Francia rurale, attraversa il XX secolo da donna libera, femminista e quindi, suo malgrado, serial killer. Grande successo in Francia, il thriller di Philippon, uscito nel 2018, arriva adesso in Italia pubblicato da Ponte alle Grazie.

La sua Berthe sembra un po’ una vecchietta arzilla da film western.

«Ho cercato di mescolare i generi, e Berthe in effetti appartiene all’iconografia del Far West anche se vive nel Massiccio centrale francese. Fa pensare ai fuorilegge dei western, non sempre eroi negativi, costretti a difendere le loro vite e le loro proprietà dai soprusi e quindi costretti a loro volta a infrangere le regole».

Il romanzo alterna i toni, ci sono scene molto violente e dure raccontate in modo crudo e anche momenti umoristici.

«È un linguaggio molto lavorato, è stato molto importante per me giocare sulla lingua, sulla struttura e sul ritmo per dire quello che volevo sperando anche di divertire il lettore. La centenaria con la pistola è un libro estremamente duro e grave, che cerca di raccontare il XX secolo attraverso le violenze e le prepotenze che le donne hanno dovuto subire e alle quali Berthe si è ribellata. Lo humour è la valvola di sfogo che permette alla pentola a pressione di non scoppiare. Ci sono scene di violenze sessuali, di aggressioni, ho cercato di scrivere un libro di denuncia senza essere troppo professorale».

Le figure maschili non ne escono benissimo.

«Perché troppo spesso sono responsabili o complici di quel patriarcato che ha reso molto difficile la vita delle donne. Ma Berthe non odia tutti gli uomini: solo quelli che fanno qualcosa per meritarsi la sua vendetta».

C’è comunque il grande amore.

«Luther. La prova che non tutti gli uomini sono uguali, e che Berthe non è una fanatica misantropa».

E anche l’ispettore André Ventura è una figura positiva.

«Perché è un uomo misurato, equilibrato, con difetti dei quali però è cosciente. Un uomo che si mette in gioco, che cerca di migliorare. Degli altri denuncio soprattutto l’arroganza e la prepotenza, quella pretesa di prendersi ciò che pensano sia un loro diritto. Da cui le discriminazioni, le violenze sessuali, la misoginia».

Definirebbe il suo romanzo come un poliziesco?

«Non saprei, mi pare che in Francia io mi stia facendo la reputazione di un autore che sfugge un po’ alle etichette. Ci sono omicidi e c’è un ispettore, è vero. Ma non ci sono dubbi si chi sia l’autore dei reati, cioè Berthe, e quindi il romanzo è più la storia della sua vita che un giallo. È un libro femminista e molto pulp. In partenza sono uno sceneggiatore, e mi piace giocare con i codici del cinema, tra il western, Clint Eastwood, Quentin Tarantino e i fratelli Coen».

Mescolare crimini e denuncia sociale è anche nella tradizione dei thriller scandinavi, da Per Wahlöö e Maj Sjöwall a Stieg Larsson della saga «Millennium».

«È vero, credo che sia un modo interessante per dire delle cose, per denunciare certi aspetti della società senza diventare pedanti. Berthe, la vecchina con la pistola Luger, ha 102 anni, quindi è nata nel 1914. Questo mi permette di raccontare la condizione della donna dall’inizio del XX secolo, da quando nella Prima guerra mondiale gli uomini partono per andare a combattere a Verdun e le donne restano sole, e poi sono costrette a sposarsi per vivere. Racconto di quell’era non troppo lontana nella quale le donne non avevano neanche il diritto di avere un conto in banca e un libretto degli assegni senza il permesso del marito, non avevano il diritto di voto, e di quel che succede quando negli anni Cinquanta in un villaggio sperduto dell’Auvergne arrivano comunque le idee femministe, e la lotta per l’uguaglianza che porterà al diritto all’aborto. Ho scritto questo romanzo in piena epoca MeToo, e la lunga vita di Berthe mi ha permesso di mettere le cose in prospettiva. Attraverso Berthe ho potuto raccontare la ragazza, la madre e la nonna con lo stesso personaggio».

Leggendo il libro si ci confronta con alcune aberrazioni oggi impensabili, come la mancanza del diritto di voto. La lunga strada percorsa può indurre a un certo ottimismo?

«Non so, il progresso è innegabile ma mi pare estremamente lento. E poi ogni conquista delle donne corrisponde a una successiva reazione machista, basta guardare a quel che sta succedendo negli Stati Uniti a proposito dell’interruzione di gravidanza o alle leggi restrittive in Polonia, per non parlare di quel che succede al di fuori dell’Occidente, in Iran per esempio. Potremmo essere tentati di pensare che la questione dei diritti negati alle donne sia ormai superata, ma non lo è affatto. È come per il razzismo. Certo, nel Sud degli Stati Uniti negli anni Cinquanta i neri venivano linciati impunemente per strada, oggi le leggi non lo consentono più ma poi i neri continuano a morire, magari per mano di poliziotti violenti».

Qual è stata l’accoglienza del libro in Francia?

«Ho fatto molte presentazioni e ho raccolto tante testimonianze incredibili di donne che mi hanno raccontato delle violenze patite ancora oggi in modo quotidiano. La questione femminile, dal femminicidio alle molestie sessuali, non è chiusa affatto».

E gli uomini come hanno reagito?

«Direi bene, la maggior parte dei miei lettori sono aperti su questi temi e non penso affatto che tutti gli uomini siano sessisti e prevaricatori, ovviamente. Ma ce n’è stato uno comunque che mi ha colpito, un lettore che mi ha scritto su Facebook per dire che lui rivendicava il suo essere antifemminista, misogino, sessista. Però, aggiungeva, il mio libro gli era piaciuto molto. Com’era possibile? “Perché Berthe mi ricorda mia nonna”, mi ha risposto. L’ho trovato molto interessante, uno sdoppiamento tra la dimensione personale e quella sociale».

Nel suo romanzo la violenza in risposta alle ingiustizie ha qualcosa di esaltante, di soddisfacente. Come quando i nazisti bruciano alla fine di «Inglorious Basterds» di Tarantino.

«L’idea è che la violenza nell’arte può essere catartica, se non è gratuita, se è giustificata perché nasce come risposta, come vendetta. È un grande classico cinematografico e letterario: la vendetta riparatrice. Di solito è un riflesso maschile. Nei film, se un uomo perde la donna che ama,il suo primo riflesso non è piangerla ma correre dietro a chi l’ha uccisa. Berthe ha questa presenza di spirito».

In questo, sia pure in situazioni diversissime, ricorda un po’ la Jeanne Moreau «sposa in nero» di François Truffaut, che stila lista degli uomini che le hanno ucciso il marito appena sposato sparando per gioco dalla finestra davanti alla chiesa, e li elimina a uno a uno.

«Oppure Uma Thurman in Kill Bill. Adoro le donne forti come quelle interpretate da Gena Rowlands nei film di John Cassavetes. O come Thelma e Louise, protagoniste di un film luminoso e divertente che però si fonda sulla denuncia delle violenze sulle donne».