Tuttolibri, 10 giugno 2023
Su "Gli ultimi giorni di Roger Federer" di Geoff Dyer
Dyer ha sempre scritto libri che rivelassero i propri ingranaggi, gli intoppi, l’ansia, la frustrazione del processo, libri che rendevano precario e risibile l’argomento stesso, libri che si rivoltavano contro il loro autore (come nell’impossibile biografia su D. H. Lawrence, Per pura rabbia, che non a caso ha il sottotitolo di: «fare a pugni con D. H. Lawrence»). Libri in cui Dyer prende spazio e si ritira, tra compiacimento e senso di inadeguatezza, tra narcisismo e autoironia, fino a costringere anche chi legge a un continuo spaesamento e alla deferenza – quasi involontaria – verso la sua bravura, del tipo: «non so cosa sto leggendo, ma ci sto dentro».
Il suo nuovo libro, Gli ultimi giorni di Roger Federer, ovviamente non è un libro su Federer. In questo Dyer non si smentisce, trasformando un pretesto narrativo in una speculazione azzardata e sublime, facendolo però restare anche un pretesto. Se c’è un caso in cui l’aggettivo pretestuoso ha una valenza positiva è in relazione agli scritti di Dyer. Gli ultimi giorni di Roger Federer è un libro su «le cose che finiscono, le ultime opere degli artisti, il tempo che fugge». Ma che significa oggi «finire»? O «ritirarsi», come ha fatto Federer? È una scelta? È una necessità? Quali sono i condizionamenti interiori ed esteriori? E soprattutto: quali sono le conseguenze per chi assiste all’immagine fantasma di ciò che avrebbe ancora potuto essere?
Il rapporto con il proprio tempo per Dyer è fondamentale: in ogni epoca la finitudine ha un valore diverso. Storicizzare è già parte della trasformazione: «Nel mondo in cui sono cresciuto io – un mondo di lavori mal pagati, spesso sgradevoli e poco gratificanti – il pensionamento era un traguardo che i miei parenti attendevano con impazienza, sorprendentemente fin da giovanissimi. Come una promozione, un’ambizione, in pratica. Nel mondo in cui sono entrato a far parte il concetto di andare in pensione è quasi sconosciuto, o perlomeno quasi mai ammesso. (…) La differenza tra lavoro e pensionamento è impercettibile, anche se ci si mette a leggere – cosa che sconsiglio con qualsiasi clima – con una coperta sulle ginocchia».
Ci sono condizionamenti storico-economici, ma anche condizionamenti esistenziali nelle sfumature che il senso della fine può acquistare. Esiste una «crisi di senilità» che inficia la nostra estetica? Dyer ne sembra convinto, eppure quelli che paiono «limiti» dati dalla vecchiaia possono rivelarsi delle intuizioni, un’avanguardia che nasce dalla finitezza e dalla finitudine. Così è per Turner, ad esempio, la cui «maestria nel catturare la luce anticipò e fu ammirata dagli impressionisti, tra cui Monet e Pissarro» ma che per gli stessi motivi fu derisa dalla stampa a lui contemporanea: «se le opere venivano appese al contrario non cambiava niente». Lo slancio di Turner verso l’astrazione nasce da un’ansia di incompiutezza, da un distanziamento dalla parola fine: «L’idea – (peraltro di Lawrence, tanto per chiudere o non chiudere un cerchio) – secondo cui Turner non avrebbe mai dipinto il suo ultimo quadro, può essere vista anche come una proiezione sull’artista e le sue tele dell’esperienza di chi le guarda» o per metterla nelle parole di Lady Trevelyan: «Non si arriva mai alla fine di un suo quadro». Un’esperienza simile rispecchia la reazione di chi legge un libro di Dyer, e c’è qualcosa di straziante e di inquietante – come accade nell’esperienze che non siamo in grado di presagire – nel leggere in questo saggio una parte che parla dell’ultimo libro di Martin Amis, proprio a pochi giorni dalla morte del suo autore: «Inside Story ha molto della vecchia (giovane) spavalderia e verve soprattutto nelle parti che riguardano la vita sentimentale di Amis negli anni settanta, divertente da leggere, anche quando un po’ imbarazzante da leggere(...) Ora, il divertimento non va mai sottovalutato, soprattutto perché il divertimento è ciò che mancava negli ultimi romanzi di Amis, una mancanza che avevo sentito in modo acuto, perché leggere Amis di solito mi rendeva consapevole di quanto leggendo lui mi divertissi più di quanto mi fossi divertito leggendo qualsiasi altra cosa da… be’, dall’ultimo Amis».
In realtà, Dyer fa una mezza stroncatura di Inside Story, definendolo «un romanzo disordinato e carente» e auspicando il taglio di «duecento pagine». Non so quali pagine avrebbe tagliato Dyer, ma immaginare la possibilità di un libro diverso è come se togliesse in parte la sensazione di finitudine non soltanto di quel libro ma dell’esistenza stessa di Amis, e – in prospettiva – dell’opera e dell’esistenza anche di Dyer. In fondo è confortante sapere che ci sarà qualcuno dopo di noi che ci leggerà e che forse si divertirà, e che però si sarebbe «divertito ancora di più» con duecento pagine in meno o con qualsiasi altra proiezione personale su ciò che abbiamo scritto.