Robinson, 10 giugno 2023
Biografia di Marina Giaveri raccontata da lei stessa
Francesista, allieva di De Nardis, fu stregata da alcuni versi del “ Narcisse” e sulla Senna si mise sulle tracce della scrittrice e del poeta, che frequentavano gli stessi salotti e da “ artigiani superiori” tanto si stimavano. Poi dal saggio è passata al romanzo
È la nostra migliore esperta di Paul Valéry e di Colette, due immense glorie francesi che hanno dominato la letteratura tra le due guerre.
Marina Giaveri è anche una scrittrice dotata di sapienza e che ha recentemente scoperto che la saggistica non ha poi confini così rigidi rispetto al romanzo. Di qui la ricostruzione storica di Lady Montagu e delle sue gesta durante l’epidemia di vaiolo. «Scrissi quel resoconto prima che piombassimo nell’incubo della pandemia, partendo da un verbale che coinvolgeva Maria Teresa d’Austria. Poi durante il periodo del Covid ho lavorato al mio esordio narrativo,Sui mari di Ulisse, una storia immaginata dopo aver letto i diari personali di tre giovani inglesi innamorati del Mediterraneo, che partirono a metà del Settecento “sulle orme di Omero” e incredibilmente si imbatterono in Palmira».
Si cerca una cosa e se ne trova un’altra.
«È un gioco del caso. In fondo posso dire che è accaduto anche a me. Sono un animale da archivio e non pensavo minimamente che i “documenti” mi portassero a frequentare il territorio della narrativa».
Quando hai scoperto di possedere una vena narrativa?
«A dire il vero negli anni in cui ero a Parigi, distaccata dall’università italiana, avevo scritto alcuni racconti, mostrandoli al mio amico Giuseppe Pontiggia, che mi disse: “fanne una dozzina e pubblicali”. Poi ci fu la sua morte improvvisa, in quell’estate calda del 2003. Mi venne una tale tristezza che lasciai perdere, tuffandomi nel lavoro accademico».
Non si dà mai il rilievo giusto al lavoro accademico.
«Lo si vive come se fosse la cosa più noiosa e conformista che si possa immaginare. Ma provengo da studi in cui ho incontrato persone eccezionali. Mi sono laureata alla Statale di Milano con Luigi de Nardis e Enzo Paci discutendo una tesi su Paul Valéry».
Sei una francesista.
«Indiscutibilmente, anche se ho avuto diverse altre passioni. Sono stata allieva di Agostino Lombardo.
Fece un corso su T. S. Eliot che aveva conosciuto Bertrand Russell, descrivendo questo personaggio atipico in un paio di poesie. Avrei potuto intraprendere la strada dell’italianistica se all’università fosse rimasto Mario Fubini, un uomo gelido ma grande insegnante. E poi c’era la mia passione per la geografia. Seguivo le lezioni di Lucio Gambi, che aveva completamente svecchiato quel sapere. Alla fine mi lasciai incantare da alcuni versi, tratti dalNarcisse di Valéry trovandoli bellissimi e chiesi la tesi a De Nardis. A quel tempo per mantenermi agli studi lavoravo».
Cosa facevi?
«Ero alla Fratelli Fabbri. Col tempo divenni assistente di Anna Aureli, una donna formidabile che aveva iniziato ad occuparsi del settore dell’arte per poi divenire direttore di tutta la produzione editoriale».
La tua famiglia non ti poteva mantenere?
«Lo avrebbe fatto ma a costo di sacrifici. Mio padre era un operaio specializzato in impianti, mia madre proveniva da una famiglia contadina. Sono stata la prima a laurearmi. Bisogna riconoscere che allora l’“ascensore sociale” funzionava».
Ti laurei e cosa accade?
«Conservo una consulenza alla Fabbri e ho anche la fortuna di scambiare alcune lettere con IgorStravinskij. Avevano un tono gentile e colto. In pratica mi confrontavo su un suo scritto dove Stravinskij parlava del suo impegno culturale nell’ambito della musica moderna. A quell’epoca, i primi anni Settanta, ero già professore incaricato. Giravo, di anno in anno, per varie università italiane, fino a quando approdai all’Orientale di Napoli, dove restai per cinque anni. Fu un periodo molto importante a contatto con un gruppo di lavoro fantastico».
Tu eri l’outsider?
«Non proprio, avevo la fama di quella che durante la tesi di laurea si era recata in casa di Valéry per consultare gli archivi».
Era già scomparso da molto tempo.
«Morì nel 1945. Ma ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare la moglie e le figlie».
Vivevano a Parigi.
«In un bel palazzo ottocentesco disegnato da Berthe Morisot per la propria famiglia. Jeannie Gobillard, moglie di Valéry, era infatti la nipote di Berthe Morisot e abitava lì con la sorella e la cugina Julie Manet, il cui zio era Édouard Manet, il pittore. Le tre ragazzine avevano avuto come tutore Mallarmé, alla cui morte subentrò Renoir. Dopo il matrimonio di queste ragazze, ogni coppia occupò un piano del palazzo».
Era un bel condominio.
«La casa che ho frequentato aveva quadri ovunque e non robetta, ma dipinti di Renoir, di Degas, di Berthe Morisot e poi disegni. Renoir, affettuosissimo tutore, mandava alle tre ragazzine cartoline “fatte a mano” da lui, cioè quadretti rettangolari su cartoncino che affrancava e spediva!».
Hai scoperto uno scambio di lettere tra Valéry e Albert Einstein. Che cosa si scrivevano?
«Nel 1919 Valéry si imbatte in un articolo anonimo, che poi si scoprirà essere di Bertrand Russell, dove è spiegata la nuova teoria proposta da un fisico tedesco di nome Albert Einstein. Se ne entusiasma e comincia a leggere tutto quello che riguarda la fisica della relatività».
Per un poeta cosa significava questo approccio alla scienza?
«C’è un antefatto. A vent’anni , malgrado l’ammirazione e l’affetto per Mallarmé, Valéry capisce che l’utopia letteraria non è per lui».
In che senso non fa per lui?
«Quella che percepisce è una sorta di utopia demiurgica, ma non si può edificare un mondo di parole. Decide, perciò, di affidarsi da autodidatta di genio alla scienza: matematica e soprattutto fisica».
Forse il libro più enigmatico e insieme rappresentativo di questa nuova fase è “Monsieur Teste”.
«Teste è il Testimone. E direi che è anche la testimonianza della vita e della situazione di Valéry durante i vent’anni in cui – abbandonata la poesia – persegue un suo ideale personale di conoscenza, accumulando note sul funzionamento della mente, come è riportato nei suoi Quaderni. La figlia Agathe mi disse una volta che c’era una tomba di un certo Monsieur Teste nel cimitero di Samoreau, dove è sepolto Mallarmé, e che forse il nome era stato suggerito a suo padre da quella lapide. Ma certo il nome è perfetto per il ruolo che Valéry gli affida: l’intelligenza pura, l’insularità attentamente difesa di un osservatore».
Con Einstein si incontrò mai?
«Si conobbero nel 1926 al Pen Club di Berlino. So che in seguito si rividero durante un soggiorno parigino di Einstein. Agathe mi raccontò di deliziosi aneddoti di quegli incontri. Poi arrivarono le persecuzioni naziste. Nel 1933 Einstein, appena tornato dall’America, develasciare la Germania, rifugiandosi in Belgio. Valéry gli scrive una lettera indignata e commossa: “Ho letto con tristezza e disgusto, nei giornali, del trattamento a voi inflitto da una politica insensata e bestiale”, concludendo che lo aspetta a Parigi, al Collège de France, che gli propone una cattedra malgrado l’opposizione feroce della destra».
Einstein cosa rispose?
«Scrisse una lettera bellissima, in cui depreca quel che sta avvenendo; non per quanto tocchi la sua vita ma per la sorte di tanti altri, meno famosi, e per quanto si disegna all’orizzonte politico dell’Europa tutta. In quei momenti bui sottolinea il silenzio del mondo intellettuale di fronte al nazismo e all’antisemitismo».
Hai curato un importante Meridiano delle opere di Valéry. Ma prima ne avevi curato un altro di Colette.
Si conobbero Valéry e Colette?
«Sì, certo. Frequentavano gli stessi salotti e le stesse redazioni di giornali. Fra i libri che Valéry le dedica ne vidi uno con questa dedica: “A Colette/ che unica del suo sesso/ sa che scrivere è un’arte,/la possiede, e confonde/una gran quantità di uomini che la ignorano/Il suo amico Paul Valéry”. L’ultimo marito diceva che parlavano sempre fra di loro del mestiere: erano due artigiani superiori».
Ha avuto più di un marito?
«Ne ha avuti ben tre. E direi che la sua visione del mondo era profondamente anticonformista. Come la sua vita del resto. È stata una donna astutamente disincantata, come del resto si capisce dai suoi testi letterari: scrive e asciuga. E poi quei finali splendidi senza mai dare la sensazione dell’abbandono compiaciuto».
Uno dei testi più belli è “Cheri”.
«Meraviglioso, dove si coglie in tutta la sua crudeltà l’enorme divario di età tra la donna anziana e il suo giovane amante. Non si compiace e neppure ha pena per questa vecchia che si guarda allo specchio e non si riconosce. Ci fa capire solo che la vecchiaia è una crudeltà senza rimedio. Eppure, lei che non è mai stata femminista, parte da un dato di fatto: l’uomo è un nemico della donna, anche quando condividono l’amore. E la figura femminile è nelle sue descrizioni quella più forte».
Anche Lady Montagu è una donna caparbia, gentile ma forte.
Il libroLady Montagu e il Dragomanno l’ho scritto prima che ci fosse il Covid e racconta della lotta di questa donna coraggiosa a favore dei vaccini per combattere l’epidemia di vaiolo, attraverso la pratica dell’inoculazione. E questo lungo saggio, perché è un saggio, è nato negli archivi dove è saltata fuori un documento in cui si parla dell’impegno di MariaTeresa d’Austria, vent’anni dopo l’esperienza di Lady Montagu, a far conoscere all’Europa quella pratica pre-vaccinale che è appunto l’inoculazione».
L’inoculazione, per capirci, sarebbe iniettare una dose minima di “vaiolo”, diciamo il suo pus, per combattere efficacemente chi ne è contagiato.
«È così e di questa pratica proprio Lady Montagu viene a conoscenza in un suo viaggio in Turchia, dove accompagna il marito ambasciatore. È un dragomanno, cioè un interprete che in realtà è anche medico, a spiegarle dell’esistenza di questo metodo per curarsi dal vaiolo. Non è un saggio di storia della medicina, quanto di storia delle idee. Ma pur sempre un saggio, il passo ulteriore nella narrativa l’ho compiuto con Nei mari di Ulisse ».
Scrivere un romanzo è un modo di cambiar pelle.
«Per me è stato un modo di assecondare il piacere della scrittura. Sono partita, come ti dicevo, dai diari di tre giovani colti e avventurosi e nel leggerli mi sono sentita sedotta dalla possibilità di creare a mia volta dei personaggi di fantasia».
Dentro a questo viaggio c’è un’idea di Mediterraneo che abbiamo perso. Immagino che tu ne sia consapevole.
«Il Mediterraneo è stato per secoli, anzi millenni, il luogo della ricchezza e dei saperi. Il luogo delle“bianche città di marmo” contrapposte a capanne boschive o a carri di migranti. Poi, dopo il Cinquecento, eccolo impoverirsi, trasformarsi via via nel luogo delle “superbe rovine”».
Fu il momento del Grand Tour.
«Erano visitatori che arrivavano dai paesi più prosperi per completare la loro educazione classica. Ammirati e stupefatti dalle rovine di colonne smozzicate o incuriositi tra pastori analfabeti che spingono greggi di capre. Oggi il Mediterraneo è il luogo di viaggi disperati. E mi vengono in mente dei versi di una poetessa napoletana, Enza Silvestrini, che riprendendo Omero, scrive: “Ti depongo in una bara d’acqua/ dove tutto è smemorato/ senza nomi/ solo una frana melodiosa di onde”».
Questo è l’anno del Manzoni. Mi dicevi che hai appena finito un nuovo romanzo.
«Ho voluto divertirmi immaginando una storia piuttosto stravagante. Hai mai notato che I promessi sposicominciano il 7 novembre 1628 e proprio in quei giorni finiscono le avventure dei Tre Moschettieri? Perché non mandare Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan in una spedizione italiana, facendoli apparire al galoppo presso “quel ramo del lago di Como”?».
Dumas e Manzoni nella stessa avventura.
«Perché no, tutti e due – sia pure con intenti diversi – scrivono il grande romanzo storico».