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 2023  giugno 10 Sabato calendario

Parla Norman Foster

Ogni cosa è illuminata. Deve esserlo. « Un malato in ospedale in una stanza con tanta luce naturale ha molte più possibilità di sopravvivere rispetto a un paziente senza finestre » . Parola del monumento dell’architettura mondiale, Norman Foster, che ci riceve nei suoi sinuosi e splendenti studi londinesi di “ Foster + Partners” sul Tamigi, tra l’Albert Bridge e il Battersea Park, poco lontano dalla powerhouse dei Pink Floyd. L’archistar inglese di Stockport, umbratile periferia di Manchester dove è cresciuto tra mattoncini rossi, bullismo e povertà, ha appena compiuto 88 anni, dopo aver superato a inizio secolo un infarto e un cancro all’intestino. Allora i medici che gli diedero qualche settimana di vita. Invece, la leggenda di “ Sir” e ora “ Lord” Norman Foster continua. Non solo nel palazzo a “ cetriolino” Gherkin della City, l’ex municipio sulla Southbank, il quartier generale di Bloomberg, la paradisiaca “ Great Court” nell’atrio principale del British Museum, l’aeroporto Stansted o le “ vele” dello Stadio di Wembley, per citare alcune sue “ cattedrali” solo a Londra. Appassionato di auto d’epoca, pilota amatoriale dopo la gioventù nella Raf e accanito ciclista tra Inghilterra, Stati Uniti, Svizzera e Spagna dove divide la sua vita con la terza moglie iberica Elena Ochoa e cinque figli, Lord Foster è in splendida forma. E, dolcevita nero, pantaloni sabbia, calze cachi ed eleganti mocassini maggese, aRobinson ripercorre la sua eccezionale carriera, racconta i progetti futuri in nome della sostenibilità e dell’ambiente, e ci svela i segreti del suo successo, disegnando davanti a noi con la matita sui fogli A4 dalla cartellina castana che porta sempre con sé dal 1975.
A proposito. Immancabile, sino al 7 agosto 2023, la sua maestosa retrospettiva al Centre Pompidou di Parigi che l’ha onorato con l’ultimo piano sinora concesso solo a colossi come Duchamp e Dalí: centinaia di schizzi e bozze dei suoi capolavori, i modelli di tutto il suo universo disseminato in sei continenti come il palazzo Hsbc a Hong Kong, il campus Apple Park in California alimentato al 100% da energie rinnovabili, l’altissimo Viadotto di Millau in Francia, il campus Luigi Einaudi a Torino, la stazione della Tav a Firenze se mai si farà. E poi l’ossessione per “ la città verticale” e i grattacieli, la mobilità cittadina, le collaborazioni con Nasa, Centre for Advanced Nuclear Energy System del Mit di Boston e l’Agenzia Spaziale Europea per sganciare gli edifici dalle fonti di energia cittadine e puntare tutto sul nucleare e rinnovabili. E poi leEssential Homes, presentate all’ultima Biennale di Architettura di Venezia, ossia un prototipo di casa economicae sostenibile per i rifugiati che supera il concetto di tende utilizzando una tela di cemento e una struttura a griglia che offrono sicurezza e durabilità fino a 20 anni. Fino alla ricostruzione della città ucraina di Kharkiv, dove è stato lo scorso dicembre: « Stiamo lavorando con un economista di Oxford e un urbanista di Harvard, abbiamo posto 60 mila questionari ai cittadini per capire quale città desiderano per migliorare i palazzi di epoca sovietica e ricostruire Kharkiv in nome di sostenibilità, prosperità e cultura » .
Poi certo, persino Foster, guru e demiurgo del modernismo di alluminio, vetro e acciaio, ha dovuto ingoiare mezzi fallimenti come la nuova sede della Bbc a Londra affondatagli da Margaret Thatcher o il luccicante ponte Millennium Bridge, che collega la cattedrale di San Paolo alla Tate Modern: all’inaugurazione nel 2000 tremava così tanto che dovettero chiuderlo e risistemarlo per molti mesi. Proprio il palazzo Hsbc a Hong Kong nel 1985 lo salvò dalla bancarotta. Ma c’est la vie. Foster, premio Pritzker, Stirling e Principessa delle Asturie tra gli altri, è un pilastro dell’architettura high-tech — detestata dal tradizionalista re Carlo III — insieme a Renzo Piano, Richard Rogers, Michael Hopkins, Minoru Yamasaki e Santiago Calatrava. Ma è stato anche il protagonista di un romanzo di formazione dickensiana: figlio unico di papà operaio, madre panettiera, gli studi per l’architettura conquistati con sacrifici, irrefrenabile ambizione e una borsa di studio a Yale dove conobbe il compagno di viaggio dell’intera carriera, Richard Rogers, con il quale iniziò a lavorare tra tanti modelli e prime influenze: Buckminster Fuller, Lloyd-Wright, Le Corbusier, Léger, fino a Sol LeWitt, Boccioni, Brancusi. Una passione nata nei sobborghi e dalle locomotive di Manchester, ma soprattutto dalla lettura del fumetto di fantascienza Dan Dare, pilota del futuro sulla rivista Eagle. Che immaginava un avvenire di macchine volanti ed edifici iper-tecnologici: «Quelle fantasie giovanili sono la mia realtà oggi».
Norman Foster, quando risale il corso di tutta la sua carriera nella retrospettiva al Pompidou, a che cosa pensa?
«Non la considero una retrospettiva. È una “futurospettiva”. Perché io e i miei colleghi lavoriamo sempre con una visione del futuro. Sin dal 1960, quando nacquero i movimenti ambientalisti contemporanei, l’era delle minacce pesticide, il manifesto antesignanoPrimavera silenziosa di Rachel Carson e le missioni dell’Apollo che mostrarono quanto sottili fossero gli strati dell’atmosfera, l’architettura si è basata sul concetto di sostenibilità. Lo stesso è oggi. L’architettura deve essere salutare per l’anima, lo spirito e il pianeta».


Ma un archistar come lei come può raggiungere un simile compromesso? Lei parla di sostenibilità ma allo stesso tempo continua a costruire aeroporti in tutto il mondo.
«Bisogna separare emozioni e pregiudizi dalla realtà nelle nostre società, che oggi mostrano la necessità di un’abbondanza di energia. Guerra in Ucraina a parte, le persone vivono più a lungo, la mortalità si riduce, c’è libertà politica e sessuale, meno violenza, e la società produce sempre più energia pulita. In questo il nucleare è cruciale, ed è l’unica fonte verde (con le scorie sotto controllo) oggi affidabile a disposizione. Bisogna usare la testa e non l’isteria.
Perché sì, dobbiamo razionalizzare e ripulire il consumo di energia, ma mica ridurlo. Altrimenti ci sarebbe regresso e non progresso. In tal senso, possiamo persino trasformare l’acqua marina in carburante. Ma bisogna contestualizzare: la mobilità aerea causa il 2% delle emissioni di gas serra nel mondo, meno degli allevamenti intensivi o del consumo di hamburger. Non avrebbe senso azzoppare un settore dei trasporti come quello aereo, anche perché intreccia velocemente culture, idee e comunità. Tuttavia, possiamo fare molto per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni, soprattutto nelle infrastrutture, lavorando con la natura. Prenda per esempio l’aeroporto di Stansted, a Londra: il ricorso alla luce naturale è estremo e così abbiamo ridotto notevolmente il consumo energetico.
Abbiamo ribaltato la filosofia. Ecco cosa dobbiamo fare, anche perché l’energia rinnovabile al momento è solo al 10% del totale. Ci sono troppi falsi miti oggi nel mondo: come quello delle auto elettriche alimentate da energia però ricavata da combustibili fossili».
Se Marc Augé definì gli aeroporti “non luoghi”, il filosofo Alain de Botton anni fa ribaltò questa percezione in «luogo di sogni ed emozioni». Lei considera l’aeroporto una nuova vivace agorà sociale?
«Potrebbe diventarlo, soprattutto se aerei e infrastrutture diventeranno più puliti, efficienti e silenziosi. Guardi, le faccio vedere (prende matita e
carta dalla sua cartellina, e inizia a disegnare, ndr),
negli anni abbiamo totalmente rivoltato il concetto di aeroporto…vede? I tubi, le condutture, i cavi, le altre fonti di energia non passano più sul tetto ma sotto i nostri piedi. L’aeroporto diventa come un albero, come metafora dell’edificio perfetto. Ma anche come gestione delle risorse, perché se introduciamo la natura in città ed edifici possiamo umanizzare gli spazi. Un po’ come il Palazzo di Cristallo (
Crystal Palace)
dell’Expo di Londra del 1851».
Quindi cosa c’è di nuovo?
«Che oggi riusciamo a unire e ottimizzare tutte le nostre scoperte e tecnologie in un unico sistema, come questo smartphone: contiene tecnologie già esistenti in passato (mail, musica, foto, eccetera) ma è un mezzo potentissimo perché le riunisce tutte. Lo stesso stiamo facendo per aeroporti ed edifici della nuova generazione: come nell’ultima sala della mia mostra al Pompidou, stiamo lavorando con il Mit per fornire elettricità a grattacieli e quartieri anche tramite microreattori nucleari, con cellule di sei metri. E così, anche grazie ad altre energie rinnovabili, sganciarsi dalle vecchie reti elettriche. In passato, aeroporti e fabbriche erano collocati in città, poi li abbiamo trasferiti lontano dai centri abitati, perché inquinanti e problematici come Kai Tal a Hong Kong o Tempelhof a Berlino. Ora però il trend potrebbe invertirsi, anche grazie al futuro utilizzo di droni per la mobilità. Insomma, i fumetti fantascientifici che leggevo da bambino diventeranno realtà».
Quanto del suo successo deve a quei fumetti di “Dan Dare”?
«Beh, erano tentativi di predire il futuro. Ma soprattutto, da quella lettura ho considerato il futuro sempre migliore del passato. E persino l’intelligenzaartificiale non potrà mai sostituire noi architetti. È il mio ottimismo, che mi fa leggere la realtà senza farmi trasportare da emozioni e pregiudizi».
Del resto, il motto del suo stemma araldico di famiglia è: «L’unica costante è il cambiamento».
«A 88 anni, sono impaziente come lo ero da ragazzino. E sono ancora stimolato dalle sfide che incrociano passato e futuro sconosciuto».
Qual è il suo primo ricordo, la prima immagine che le viene in mente, nella grigia periferia di Manchester dove è nato e cresciuto?
«Il mio primo schizzo: un aereo. I dipinti di quelle aree industriali a opera di L.S. Lowry. Mentre il mio primo modello di edificio invece fu la Manchester Town Hall, credo a 16 anni. Ma allora ancora non avevo idea di cosa davvero fosse l’architettura. È stato un processo subliminale».
E poi venne Buckminster Fuller.
«Sì, come la sua opera Operating Manual For Spaceship Earth. Ma allora ero già un uomo, andai a Yale con una borsa di studio. Prima, lasciai la scuola a 16 anni, venni arruolato dalla Raf a 18, e iniziai l’università solo a 21».
Un’altra critica che le viene fatta sono le opere in Paesi che non rispettano i diritti umani, come quelli del Golfo.
«Allora dovremmo parlare anche di quanto accaduto a Guantanamo. Anche qui, ripeto, non bisogna mai perdere di vista la realtà…».
Il Medio Oriente sarà l’area dominante per i suoi progetti futuri?
«No, abbiamo studi in tutto il mondo, non puntiamo su una zona in particolare. Ma certo il Medio Oriente e i Paesi del Golfo offrono sfide diverse. Se per Stansted il sole e la luce sono una grazia, lì invece diventano un nemico. Quindi un architetto deve capovolgere prospettiva e filosofia, e attingere anche dalle lezioni del passato, senza nostalgia, come l’architettura spontanea o quella del deserto per ridurre le temperature dei centri abitati in modo naturale e su questa base sviluppare energia solare e altre rinnovabili. Così come avevamo pensato per il progetto (ora in
stand by, ndr)
della nuova visionaria, ultratecnologica e sostenibile città da 640 ettari di Masdar, ad Abu Dhabi».
Fra le sue opere, qual è la sua preferita?
«Sono orgoglioso di tutti i progetti che abbiano migliorato la vita di qualcuno o che si inscrivano nel solco di un futuro sostenibile, come il centro d’arte Sainsbury a Norwich, un edificio che dà aria, respiro, è sostenibile e che ha rotto le barriere tra pubblico e studenti. Ma forse quello cui tengo di più è il Reichstag di Berlino. Non solo perché è un manifesto di energia pulita con la sua ventilazione naturale ed energia geotermica a biomassa. Ma soprattutto perché è la manifestazione della democrazia, della Germania riunita, di un nuovo rapporto tra politici e cittadini, che non cancella le brutalità del passato ma le rielabora in una lezione per le nuove generazioni».
E qual è il suo rapporto con l’Italia? Il suo architetto e amico del cuore Richard Rogers, morto nel 2021 a 88 anni, era anche italiano.
«Già. Ho una vera special relationship sin dai miei primissimi anni. L’Italia è stata la destinazione del mio primo viaggio estivo da studente di architettura. Ero affascinato dagli spazi pubblici del Belpaese, come per esempio piazza del Campo a Siena o a Verona, ma anche le opere di Palladio, la Galleria Vittorio Emanuele II di Milano che lega la Scala al Duomo. E poi ovviamente, col tempo, abbiamo collaborato con tante famiglie, industrie e aziende di design».
E con Renzo Piano, secondo il quale un edificio vive per sempre, ha un buon rapporto?
«Sì, anche se ripeto: per me l’unica costante è il cambiamento. Ora però mi scusi, devo andare».
A 88 anni, quale eredità pensa di lasciare un giorno al mondo?
«Preferisco lasciare questo onere ad altri. Ma la mostra al Pompidou incarna tutto l’impegno, i sogni e la filosofia che ho perseguito nella mia vita».