la Repubblica, 9 giugno 2023
Intervista ad Andreas Gursky
La fotografia che per un decennio è stata la più costosa del mondo, Rhein II ,battuta all’asta per 4,3 milioni di dollari nel 2011 (record superato solo da un Man Ray un anno fa), sembra sorprendentemente piccola, a confronto con quelle gigantesche che ora produce il suo autore, il tedesco Andreas Gursky, probabilmente il fotografo vivente più conosciuto sulla scena artistica internazionale. Fisico prestante a 67 anni, espressione controllata e voce molto bassa, si aggira nelle sale dove il Mast di Bologna, che celebra così i suoi dieci anni di vita, gli ha allestito la prima grande personale in Italia,Visual Spaces of Today , a cura di Urs Stahel. Liquida gentilmente gli accenni a quella super vendita: «No, non fu la rivincita della fotografia sul mercato dell’arte, e non darei troppa importanza alle quotazioni, salgono e poi scendono».
Accetta di buon grado, però, domande sulla sua vita e sul destino della fotografia, medium su cui grava l’ombra di una morte annunciata per troppa intelligenza (artificiale).
Lei è figlio e nipote di fotografi. Un destino segnato?
«Forse sì, anche se provai a sottrarmi. La mia famiglia fuggì da Lipsia, allora in Germania Est, nel ’56, avevo solo un anno di vita. All’Ovest mio padre aprì uno studio piuttosto rinomato di fotografia pubblicitaria, voleva che lo prendessi in mano, ma io mi rifiutai, per scelta ideologica: ero cresciuto con le idee del ’68, non mi piaceva la pubblicità. Poi però, dopo la maturità, non sapevo cosa fare. Scelsi comunicazione visiva alla Folkwang di Essen, la fotografia mi riconquistò».
Ma la vera svolta fu l’incontro alla Kunstakademie Düsseldorf con Bernd e Hilla Becher, monumenti della fotografia concettuale del Novecento.
«Non posso negarlo, fu un’influenza enorme, si vede ancora oggi nel mio lavoro. Ma da loro ho preso soprattutto un’impostazione formale. La distanza, il soggetto isolato e frontale, la descrizione nitida…».
Lei, Thomas Struth, Thomas Ruff, Candida Höfer, Axel Hütte… Una generazione così identificabile che qualcuno ha coniato la sintesi Struffsky… Ma è esistita davvero una “Scuola di Düsseldorf”?
«Alla fine degli anni ’70 abbiamo studiato insieme, molto coesi, molto legati ai Becher, spesso ci si vedeva a casa loro… Con Ruff ho condiviso a lungo la stessa camera oscura. Certo, il mercato ci ha identificati come gruppo e questo ci ha sicuramente aiutato. Oggi molti di noi lavorano ancora nello stesso edificio. Ma non condividiamo più la stessa camera oscura…».
Quando ha capito di avere un suo stile specifico, diverso dai suoi ingombranti maestri e dai coetanei?
«Ci fu un momento cruciale. Proprio in Italia, a Salerno, nel 1990. A una svolta della strada vidi questo panorama industriale investito dalla luce del tramonto, fermai la macchina, scattai in fretta. È una immagine di cui all’Accademia avrebbero sorriso: cielo azzurro, colori saturi, una specie di cliché, ma quel giorno seppi di averetrovato una strada tutta mia, di potermi mettere alle spalle tutto quel che avevo imparato e procedere».
In che direzione?
«Guardi la veduta del magazzino di Amazon a Phoenix: un fotoreporter si avvicinerebbe al soggetto, mettendo a fuoco il primo piano e creando una prospettiva. Io ho scelto di mettere tutto sullo stesso piano».
Un piano spesso gigantesco… Nell’era della miniaturizzazione, ha scelto i grandi formati, perché?
«Ogni immagine cerca la sua dimensione giusta. Lavoro anche con iPhone non sempre è possibile realizzare formati così grandi. Invece uso macchine particolari quando penso di aver bisogno di creare immagini che agiscono nello spazio, che sollecitano un ingaggio fisico nello spettatore. Le appendo basse, proprio perché lo spettatore deve entrarci. Nella fotografia del magazzino Amazon hai una impressione di eccesso, ma se ti avvicini puoi leggere il titolo sui dorsi dei libri, riconosci le tazze della campagna elettorale di Trump, sai cosa leggevano e consumavano gli americani del 2020… Elementi che in un formato più piccolo andrebbero persi».
È evidente la sua scelta di temi sociali sensibili: la globalizzazione omologante, la mercificazione… Ma non sembra mai emergere un giudizio esplicito.
«Le mie fotografie devono parlare da sole. Certo che cisono temi socialmente rilevanti. Ma lascio che sia lo spettatore a cercare i dettagli rivelatori. In questo enorme negozio tutto-a-99-cent, ad esempio, lei vede spuntare le teste di alcuni clienti, e capisce che sono persone povere.
Nel magazzino Amazon cercavo un’immagine irritante per l’estrema nitidezza, una metafora dell’invasività del mercato, e assieme il grado di alienazione del lavoro deipicker».
Ma le sue immagini tendono all’astrazione…
«Chi ha detto che l’astrazione non possa contenere messaggi sociali? Quello che fotografo è sempre riconoscibile. Non esagero mai le situazioni. Se volessi fare fotografie militanti, mi focalizzerei sulle condizioni di lavoro. Io preferisco osservare alla distanza giusta e lasciare le conclusioni a chi guarda».
La sua veduta del Reno, quella del record all’asta, è fatta solo di strisce di colore, che cosa significa?
«È il sentiero dove spesso vado a correre. Quando corri i pensieri vagano e un giorno ho visto il fiume, che è il fiume mitico dell’identità tedesca, il fiume delle grandi saghe, come un muro. Ho capito che c’era qualcosa, e l’ho fotografato così, come fosse un piano verticale. Sì, ho cancellato gli edifici industriali sullo sfondo, per lasciare quel nastro senza storia e senza identità».
Molte delle sue immagini sono profondamente rielaborate dopo lo scatto.
«Ho bisogno di una riflessione ulteriore dopo lo scatto. Ma è sempre un intervento di natura visiva. Per la fotografia del circuito del Bahrain ho fatto due sorvoli in elicottero, la prima volta non ero ancora soddisfatto, feci vedere le fotografie al pilota e gli dissi: manca un pezzo, mi ci porti.
Quello che lei ora vede è in parte prelievo, in parte costruzione: lascio che le due cose si scontrino».
Con tutto questo, si ritiene ancora un fotografo?
«Non vedo la contraddizione. Non lavoro con marmo o legno, ma con i materiali della fotografia. Non esiste una realtà universalmente valida, né una fotografia che la possa riprodurre in modo soddisfacente. Io condenso la realtà, come si fa nel cinema, unisco più immagini in una sola, questo mi allontana dallo stato reale delle cose ma mi dà accesso a una realtà intensificata».
Produrre immagini condensate è proprio quello che l’intelligenza artificiale oggi sembra fare meglio di chiunque. La fotografia d’arte è condannata da questo ritorno tecnologico alla pittura?
«Credo che esista ancora un futuro per la fotografia come la abbiamo sempre intesa, lo dice il suo passato. Quando guardo fotografie di mezzo secolo fa, le trovo interessanti, piene di informazioni, fra cinquant’anni avremo bisogno di rivedere come eravamo oggi».
Ha pensato di lavorare con l’intelligenza artificiale?
«Un grande curatore, Daniel Birnbaum, me l’ha chiesto, ma ho rifiutato. Sono abbastanza tradizionalista. Credo che l’IA abbia enormi potenzialità, ma alla mia età non saprei affrontarle».
Ma se un suo studente le chiedesse di realizzare con Midjourney un Gursky, lei come reagirebbe?
«Credo che gli direi: perché no? Prova».