il Giornale, 8 giugno 2023
Intervista a Carlo Ancellotti
Il camposanto di Reggiolo, i tortellini di Angela, la nebbia che non c’è più. Detto così sembra la vita piana di un emiliano qualunque. Carlo Ancelotti non è uno qualunque, emiliano certamente e poi uomo di mondo e del mondo, si porta appresso, con orgoglio, fette di nostalgia mai malinconica: «La pianura non è il posto ideale ma quando torno in quei luoghi, le mie radici, provo emozioni e sensazioni che nessun altro posto mi sa provocare».
Il calcio vive mille contraddizioni, razzismo, violenza, arbitri, var, finanza, algoritmi, passioni. Da dove si può incominciare, per capire?
«Il calcio sta vivendo tra e con troppi problemi, non so se sia in involuzione o evoluzione. Per fortuna prevale il gioco, c’è la partita ma anche dentro questa aumentano le questioni».
Cioè?
«La tecnologia avrebbe dovuto agevolare il gioco e le sue regole, giusto per il fuorigioco e per la gol-technology che, tra l’altro in Spagna non è ancora attuata e ha creato un grave precedente in Espanyol-Atletico Madrid, con l’assegnazione di un gol fantasma che ha portato alla retrocessione la squadra di Barcellona. Il var ha tolto il potere esclusivo all’arbitro, prendendo decisioni non in linea con lo spirito e la realtà effettiva del gioco. Il fallo di mano, ad esempio. Non c’è oggettività ma decisioni personali. Il var è male utilizzato, anzi è troppo utilizzato».
Come si potrebbe e dovrebbe rimediare?
«Innanzitutto cambiando la formazione dell’International Board, con l’inserimento di ex calciatori e allenatori che conoscono bene e meglio il gioco. Sul fuorigioco, ad esempio, un ginocchio, un piede non può invalidare l’azione».
Significa che le tecnologie non servono?
«Io sono di vecchia generazione, uso le tecnologie ma non sono vittima maniacale. Condivido quello che ha detto Bielsa: una volta i punti di riferimento erano la famiglia e la scuola, oggi i social e le tecnologie».
E poi si gioca troppo.
«I miei, tra Liga, coppe e mondiale, concludono la stagione con 73 partite. Dal trenta dicembre al dodici marzo abbiamo giocato senza sosta, tranne una settimana, spostandoci tra Marocco e Arabia. Non è possibile continuare così. L’Uefa lancia la nuova champions con più squadre, la Fifa vara il mondiale con più nazioni, le leghe promuovono la finale della supercoppa nazionale a quattro squadre. O si mettono d’accordo tra loro o la salute dei calciatori non ha più alcuna importanza».
Però avete una rosa di venticinque calciatori.
«D’accordo, il mio staff è completo in ogni settore ma, ripeto, il numero degli impegni è eccessivo».
Però i problemi seri sono anche altri.
«Il razzismo di certo. Non posso accettare che lo stadio sia diventato l’ambiente più ostile di tutto e di tutti, non posso accettare questo clima di odio, per la pelle, per la religione, per l’etnia di un calciatore o di un allenatore. Nei quattro anni vissuti in Inghilterra non ho ricordi di insulti alla persona, fischi sì, cori anche, mai però un attacco personale, l’odio va combattuto, sarà un processo lungo».
Al primo insulto razzista le squadre dovrebbero fermarsi.
«Può essere una soluzione ma a patto che non ci siano poi penalizzazioni, prima cambino le regole, c’è un giudice in campo che può e deve intervenire. Qui in Spagna qualcosa si sta muovendo dopo il caso Vinicius ma io sono stato denunciato da un gruppo valenciano per avere accusato tutto il pubblico del Mestalla. Mi sono scusato ma la causa è aperta».
Tornando alle tecnologie. L’ultima moda sono gli algoritmi. Ne sa qualcosa Paolo Maldini.
«Io a Madrid ho imparato che la storia di un club va rispettata sempre, qui Di Stefano, Amancio, Gento, Puskas sono ancora valori esclusivi verso i quali si nutre riverenza. Per conservare la storia ai massimi livelli, va tutelata la memoria del passato, quello che è successo con Maldini dimostra una mancanza di cultura storica, di rispetto della tradizione milanista. Se è vero che con la storia non si vince è anche vero che la storia insegna a vincere».
La finanza domina.
«I club di football che pensano di fare business al di sopra dello spirito sportivo sono destinati a fallire. Il mecenatismo non ha più il significato di prima ma l’affarismo è negativo».
Intanto gli arabi attirano calciatori in cambio di un monte altissimo di denari.
«Hanno capito che il calcio attrae interesse nella popolazione, c’è una passione crescente, vogliono portare il loro campionato a livello dei tornei europei. Potrebbero farcela».
Lo stesso progetto fallito negli Stati Uniti.
«In America la concorrenza delle altre discipline, baseball, basketball, football era ed è fortissima».
L’Arabia potrebbe essere la nuova isola del tesoro dopo il Real?
«Io sono molto legato all’Europa, sono soprattutto legato a una manifestazione che è la coppa dei campioni, l’ho vinta da calciatore e vinta da allenatore, questo è il mio luogo, a questa tengo ancora, resto a Madrid con quest’impegno».
Cento vittorie, milleduecentottantotto panchine, quattromila conferenze stampa, riassunto?
«Girare il mondo mi ha insegnato a vivere. L’Italia è il posto migliore ma Madrid è la città ideale, Londra e Parigi sono fantastiche ma troppo impegnative, Monaco ha la sua faccia bella, il Canada è natura e libertà di circolare senza rompiscatole. Mi piace vivere e non sopravvivere».
Per esempio il Brasile.
«Sto bene a Madrid, ho un rapporto splendido con Florentino Perez, la vita qui è magica».
Nessuna nostalgia?
«Dei tortellini di Angela. La nebbia di Reggiolo? Non c’è più nemmeno quella».
Poi c’è la famiglia. Qualcosa da fare ci sarà dopo il calcio.
«Avrò un mare di cose da sbrigare, pagare le tasse, continuare a vivere, soprattutto badare ai cinque nipoti che mi martellano come pochi. Ho suggerito ai miei figli, Davide e Katia, di dedicarsi maggiormente alla visione di film in tv».
Per il momento però...
«Non smetto e poi è veramente difficile trovare qualcosa di migliore del Real».
Effettivamente.