La Stampa, 8 giugno 2023
Intervista a Orhan Pamuk
«I musei per me sono un rifugio. Ma in alcune situazioni possono facilmente diventare uno strumento di potere, di propaganda politica». Affila le frasi come un gatto gli artigli, Orhan Pamuk, seduto sornione su una piccola scalinata d’ingresso che si affaccia sul parco della Farnesina a Roma, la villa che il banchiere Agostino Chigi fece costruire come buen retiro e luogo di delizie sulle sponde del Tevere, all’inizio del ’500. Oggi è un prezioso museo-salotto, con la loggia affrescata da Raffaello Sanzio e dalla sua bottega folta di talenti, i giardini dove il rumore del traffico dell’Urbe arriva attutito.
Lo scrittore turco ha una predilezione per i piccoli musei, come il Museo dell’Innocenza che ha creato come una dedica sentimentale alla sua Istanbul, città-mondo di molti suoi romanzi. Il luogo si addice a presentare il "signor PA", nuovo alter ego del premio Nobel per la Letteratura, che racconta in una rubrica sulla rivista FMR, a partire dal numero scorso, visite attente a capolavori celebrati e opere d’arte misconosciute nei musei del mondo. Sguardi lenti e incantati che si dipanano come la trama di una storia.
PA come Pamuk. Il visitatore dei musei è in buona parte autobiografico?
«PA anche come Palomar, ed è un omaggio dichiarato a Italo Calvino. Ha la stessa capacità di guardare il mondo e l’arte con occhi freschi. PA anche come Giovanni Paolo Panini, il primo pittore oggetto della rubrica. Il signor PA è solo in parte autobiografico: come me ama l’arte e i musei ed è uno scrittore che voleva essere un pittore. Come il sottoscritto insegna a New York e va spesso al Metropolitan Museum. A differenza di me, che sono felicemente sposato, il signor PA è un uomo solitario, con molte insofferenze. Si irrita con facilità. Non resiste alla tentazione di dire quello che pensa, senza peli sulla lingua e sulla penna. A me consente un grado maggiore di libertà, di inserire sulla pagina conflitti interiori irrisolti, di arrabbiarmi attraverso un personaggio di finzione».
Per ora, al Metropolitan di Manhattan, di fronte ai quadri di Panini e al ritratto del giovane Zuñiga di Francisco Goya, appare come un ammiratore attento e pacato. Ci può anticipare qualche arrabbiatura prossima?
«Riguarda la natura stessa dei musei. È vero che sono un’arca culturale e oggi sono sotto attacco in molte zone del mondo, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ma è anche vero che i grandi musei, penso al Louvre e al British Museum, nascono su saccheggi, spoliazioni culturali, si fondano su un passato imperiale e coloniale. Insomma, ci sono zone in ombra nei musei e non sono solo ombre del passato, il signor PA se ne occuperà nelle prossime rubriche, uscendo dal Metropolitan e curiosando in altri santuari culturali. Cercando di accorciare la distanza che l’istituzione museale crea a volte nei visitatori. In Turchia, per esempio, la gente è intimidita dai musei, ha paura di fare qualcosa di sbagliato, anche se è affascinata dall’arte».
Ha visitato l’Istanbul Modern, il museo di arte moderna e contemporanea progettato da Renzo Piano a Karakoy, sul Bosforo?
«Solo l’esterno, che trovo molto bello. Voglio vedere l’interno al più presto. Diverso l’uso che ne è stato fatto da Recep Erdo?an, con l’inaugurazione in piena campagna elettorale, il mese scorso. Così un museo è purtroppo diventato uno strumento di propaganda politica. L’apertura doveva essere ritardata. Ovviamente la scelta dei tempi non si può imputare a Renzo Piano».
Non trova singolare che il concetto di museo moderno, figlio prima del Rinascimento europeo, maturato con l’Illuminismo e il Positivismo in Occidente, sia oggi abbracciato da regimi autoritari in altre latitudini? Deve scontare un peccato originale?
«Chissà. Certo è molti regimi utilizzano il museo come vetrina dei loro successi. Non solo culturali. Ma di potere, puro e semplice. È vero che questo è avvenuto anche in passato. Oggi, secondo me, assistiamo a una rinascita dei musei. Non solo luogo della conservazione, come è sempre stato. Non solo luogo dell’autocelebrazione politica, come è in alcuni casi deteriori. Ma come scena culturale attiva. Sono luoghi della complessità. Sono anche degli specchi sociali. La storia oggi può accadere nei musei, in questo senso sono più importanti dei giornali e dei mezzi di comunicazione. Soprattutto, questo può accadere nei piccoli musei che soffrono meno le infiltrazioni della politica e degli interessi economici».
Lei ha disegnato personalmente il suo Museo dell’Innocenza, che ha sede a Beyoglu, Istanbul, da un suo romanzo dallo stesso titolo. Il suo ultimo libro uscirà con il titolo I giocatori di carte, come la famosa serie dipinta da Cézanne. I musei sono un po’ una sua ossessione?
«Sono un posto magnifico per trovare e raccontare storie. Secondo il signor PA, un’opera d’arte acquista molto se ne conosci la storia. Guardate quei gatti famelici e inquietanti nel ritratto che Goya fa del bambino Zuñiga, che morirà poco dopo essere stato ritratto. Il museo evoca anche il labirinto di Borges. Il signor PA è un curioso, un goloso di storie. Alla fine potrebbe uscire dalla rubrica ed entrare in un libro. Quanto a me, il suo autore, esporrò taccuini di appunti e disegni nel labirinto di Fontanellato, la sede di FMR, in autunno. Forse non si tratta di una coincidenza».
Il libro dai taccuini, Souvenirs de montagnes au loin, ricordi di montagne da lontano, è stato pubblicato in Francia da Gallimard e verrà tradotto in Italia da Einaudi. Al contrario, il signor PA, sembra guardare da vicino.
«Quella della pittura è una passione che ho accarezzato a lungo, sottotraccia. Ora convive con la letteratura. Quanto ai musei, bisogna dire che sono ambienti sfuggenti, forse anche per questo preferisco quelli piccoli. Sono più umani. Anche i musei vasti come Paesi hanno il loro fascino però. Li rispetto. Mi piacerebbe far perdere il signor PA in un museo chiuderlo lì una notte. In questo sono diverso dal mio personaggio». Pamuk affila le labbra e si concede un sorriso. Occhieggia i tralci della finta pergola che gli allievi di Raffaello hanno dipinto nella loggia della Farnesina. Il signor PA sembra spuntare dietro uno sguardo obliquo.
Non vivono oggi anche una crisi d’identità, i musei? Confusi e superati dalla realtà virtuale e aumentata, in dialogo con le intelligenze artificiali. Che ne pensa dell’artista tecnologico turco-americano Refik Anadol, che, secondo le sue parole, ha "allucinato" una GAN, una doppia rete neurale competitiva, con la collezione del MoMA di New York e ne ha fatto un’opera d’arte digitale?
«L’intelligenza artificiale va oltre le mie conoscenze. Ho apprezzato molto però le fotografie che Anadol ha fatto al mio museo dell’Innocenza istanbuliota». Chissà cosa ne penserebbe il signor PA. Ma per quello bisogna aspettare le prossime rubriche.