la Repubblica, 8 giugno 2023
Il melodramma raccontato da Alberto Mattioli
A pensarci bene: che assurdità l’opera lirica. I sentimenti più estremi del dolore, della collera, dell’amore manifestati cantando. Il pittore Cavaradossi che sta per essere giustiziato ripensa straziato la vita perduta però canta. «Scoppia in pianto cuoprendosi il volto colle mani», come detta la didascalia in partitura, però canta anche se nella malinconica tonalità di si minore. D’altra parte, un momento. Nella liturgia non si celebrano forse col canto i misteri della divinità, il dolore di un’agonia, il tormento delle torture inflitte al Salvatore? Allora perché non cantare anche l’incitamento alla guerra, la vendetta, tremenda vendetta, il perlaceo ribollire dello champagne nei calici che «la bella infiora»? Si tratta di convenzioni, adottarle non è difficile anche perché ci vuole poco a farsi piacere una bell’aria eseguita con padronanza da una buona voce. Infatti, da quando qui da noi sul finire del XVI o all’inizio del XVII secolo è stato inventato il recitar cantando, la piacevole novità s’è diffusa con tale ampiezza che ancor oggi non c’è capitale del mondo più progredito in Europa, in Asia, nelle Americhe, che non abbia un teatro d’opera. Spettacolo multimediale se mai altri, che coinvolge la voce umana isolata o in coro, il suono dell’orchestra, i movimenti di interpreti e, talvolta, ballerini, le scene, i costumi, le luci, che dispiega insomma tutta intera la magia del teatro.
Così l’Italia lanciò nel mondo il melodramma esportando molto a lungo compositori, librettisti, scenografi, coreografi, castrati, primedonne, tenori, strumentisti, ballerini, in una continua alternanza di splendori e miserie, glorie e disastri.
Alberto Mattioli, tra i nostri più attrezzati esperti, dominato da inestinguibile passione e straordinaria competenza, manda in libreria un volume divertente, ricco di storia grande e piccola, di acute notazioni non solo sull’opera, ma anche sull’Italia e sugli italiani, perché l’invenzione del recitar cantando alla fine ha finito per definirci noi italiani. Titolo: Gran teatro Italia, viaggio sentimentale nel paese del melodramma (Garzanti).
La tesi, lampante, è che l’opera ci esprima, ci descriva, sublimi l’essenza del Made in Italy più e meglio del parmigiano, del Prosecco, del design, della Ferrari – e della mafia.Mattioli parte da una considerazione che salterebbe all’occhio, se l’abitudine non avesse finito per nasconderla. I teatri detti all’italiana, cioè quel ferro di cavallo con una platea e le file sovrapposte di palchi e palchetti, sono stati concepiti più che per vedere per farlo, lo spettacolo: conversare, cenare, mirare ed essere mirati, soddisfare i più umili bisogni, concedersi all’occorrenza qualche amorosa licenza con la complicità d’una tendina. Tutto l’opposto della Festspielhaus di Bayreuth, per esempio, concepita da Wagner con la severità d’un genio, per di più tedesco, certo della sua grandezza, che altro non concede allo spettatore che guardare e, religiosamente, ascoltare. A tutti è dato farlo con uguali possibilità, l’anfiteatro digrada verso il palcoscenico, le sedute sono scomode ad angolo retto di duro legno, l’orchestra è sprofondata in una buca dalla quale il suono esce come per sortilegio.
Il viaggio comincia dalla Scala di Milano, attacco non così scontato come potrebbe sembrare. Mattioli enumera pregi e difetti, serate storiche e occasioni mancate sottolinea la presenza di un pubblico non sempre all’altezza della comprensione musical-teatrale di un’opera e, talvolta, del semplice decoro. L’autore ci conduce poi in visita al Regio di Torino scende in quel concentrato diitalianità, in quel cuore della penisola rappresentato dall’Emilia Romagna regione ricca, tra l’altro, di tradizioni liriche vere e inventate. A Parma, per esempio, sono convinti – scrive – di avere competenze operistiche in generale e verdiane in particolare per ragioni, diciamo così, genetiche.
Curioso, inaspettato, il capitolo dedicato ai teatri d’opera di piccole, in qualche caso minime, dimensioni. Per ragioni di spazio cito solo, avendolo frequentato, quello umbro di Monte Castello di Vibio: 99 posti, 37 in platea, 62 nei palchetti. Teatro lillipuziano, che però si concede il lusso di essere pure lui “all’italiana”. Poi Venezia che Mattioli definisce non a torto una delle capitali del mondo e del divertimento dato che lì «la concentrazione dei teatri era impressionante». Tale la teatralità di Venezia da diventare opera lirica essa stessa fornendo l’ambientazione a innumerevolilibretti. Per ragioni di spazio salto, con grande rammarico, Verona, Firenze, le Marche per fermarmi a Roma. La descrizione del pubblico romano dà vita a pagine esilaranti. Ancora oggi nonostante il gran lavoro di rilancio fatto da Carlo Fuortes e Alessio Vlad, capita che certe prime romane mantengano quel “tono caciarone” così tipico, così diverso rispetto all’impettita e un po’ sbrigativa sobrietà milanese. Anche qui, però, con un risvolto positivo: il tradizionale cinismo romano evita che gli spettatori capitolini si sentano investiti come quelli milanesi dalla divina missione di chissà quale sacralità del tempio. Insomma, a Roma le “prime” all’Opera riescono a farsi anche loro microcosmo della città eterna.
Magnifico il capitolo sul San Carlo di Napoli e su Napoli. Chiude Palermo con il suo teatro Massimo, punto fermo di una città che conserva ancora le macerie dei bombardamenti di una guerra che altrove si legge solo sui libri. Proprio a Palermo però, l’autore confida d’aver incontrato la borghesia italiana più colta e preparata, il che spiega, aggiunge: «perché i siciliani “funzionino” così bene fuori della Sicilia come già obiettava il cavalier Chevalley al principe di Lampedusa».