Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 08 Giovedì calendario

Intervista a David Garrett

«Da violinista precoce e talentuoso sono stato cresciuto con tutte le attenzione trepidanti che si riservano ai bimbi prodigio.
Trascorsa l’adolescenza, avrei voluto percorrere la via consueta di tutti i concertisti, ma declinando la professione in maniera moderna.
A un certo momento ho incrociato il crossover, quando ancora non si sapeva nemmeno bene cosa fosse questa roba di combinare musiche diverse. Ed ecco che sono diventato un divo globale per pubblici d’ogni gusto e d’ogni età». Così il tedesco David Garrett sintetizza la sua vita scatenata di acrobata dell’archetto portata avanti tra le partiture di Mozart e le canzoni dei Metallica.
Superati da poco i quarant’anni, il fusto del violino — look da rockstar mascalzone su un metro e novanta d’altezza, però sguardo incantato di bimbo al cospetto di un mondo ammaliante — ha deciso di raccontarsi a cuore aperto. Nero su bianco. Arriva infatti nelle librerie italiane, il 16, l’autobiografia Se solo sapeste (Baldini+Castoldi), titolo dalle venature amare perché è lastricata di ciottoli aguzzi la via del successo. E se guardando indietro ci si accorge di aver smarrito il tempo dell’infanzia, magari una punta d’afflizione è giustificata.
Garrett in Italia viene anche di persona: il 18 giugno al Teatro Antico di Taormina (anteprima del suoIconic tour che poi sarà fra 18 e 25 luglio a Firenze, Roma, Genova, Cattolica, Macerata, Brescia) e il giorno dopo al Piccolo Teatro Strehler di Milano per laMilanesiana di Elisabetta Sgarbi.
Maestro Garrett, come mai già alla sua età si sente di tirare un bilancio dell’esistenza?
«Non mi manca certo materia narrativa, visto che lavoro da quando avevo nove anni. E gli ultimi sono talmente girovaghi che certe volte non so nemmeno dove sono. Perciò sul palcoscenico porto sempre un bigliettino con il nome della città in cui mi trovo, per non fare gaffe quando saluto il pubblico».
È un’autobiografia sincera?
«Non credo ce ne siano di più oneste tra quelle di musicisti.
Racconto con quanta dedizione mi sono votato a coltivare il mio talento».
Deve essere stato arduo tenerlo vivo con un padre-padroneinsegnante- manager come il suo...
«Lui è stato esigente e impaziente.
Duro anche sul piano fisico, talvolta. Da violinista amatoriale qual era, faceva tesoro di quanto gli insegnanti mi dicevano e in questo modo vigilava sul mio studio giornaliero a casa. Dove non c’era separazione tra la quotidianità familiare e l’immersione tenace nel violino, in funzione del quale tutto era regolato».
Perciò i suoi decisero di toglierla da scuola?
«Niente doveva rubare tempo al mio Stradivari, alle lezioni con violinisti di gran levatura come Isaac Stern, ai concerti con Zubin Mehta, ai dischi con Claudio Abbado. Quindi facevo scuola in casa. Tuttavia non sono rimasto analfabeta. Le cose che contano si imparano strada facendo.
Comunque alla fine un diploma l’ho preso: alla scuola di arti, musica e spettacolo Juilliard, a New York».
Accademia d’arte prestigiosissima, sì. Ma come è riuscito a sganciarsi da papà, dalla Germania a trasferirsi in America, abbandonando una carriera brillante per ricominciare da capo una vita nuova, in incognito?
«A vent’anni mi sono reso conto che a un musicista non può bastare il violino. Volevo apprendere la teoria, la composizione, la storia della musica, prendere lezioni da Itzhak Perlman, che mi aveva ammesso nella sua piccola classe di numeri uno senza conoscere il mio vero nome e i miei pregressi. Volevo sentirmi libero di studiare quanto mi pareva, uscire con gli amici, andare a letto all’ora che decidevo io».
E sfilare per Armani.
«Se è per questo sono stato anche modello per l’intimo di Calvin Klein. L’ho fatto per pagare le bollette. Tanti soldi facili,divertimento, feste, bevute».
Dal libro non sembra che abbia avuto troppa fortuna con le ragazze.
«Anche quello è un aspetto della vita che man mano si impara a gestire. E non serve la scuola».
Come ha cominciato a sconfinare verso il pop rock?
«Ho preso esempio dai virtuosi del violino a cavallo tra Ottocento e Novecento. Scrivevano la propria musica e arrangiavano pezzi altrui per dar spettacolo. Ho fatto lo stesso, con un repertorio che va da Vivaldi a Michael Jackson, sempre mantenendo un bilanciamento tra il mio profilo classico e quello rockettaro. Perché la formula che perseguo è fare crossover ad alto livello senza perdere credibilità nel mondo della classica.
Evidentemente ci riesco, altrimenti non continuerei a essere scritturato da orchestre come la Filarmonica della Scala».
In “Iconic” quale dei due Garrett propone?
«Rievoco le melodie che mi affascinavano da bambino, di Bach, Kreisler, Mendelssohn, Schumann, e le rileggo a mio modo. Dal vivo suono in trio con un chitarrista e un bassista, in concerti che riveleranno anche un’assoluta meraviglia musicale».
Che cosa?
«Il mio Guarneri “Baltic” del 1731, il terzo violino più costoso mai battuto a un’asta. Attorno ai 10 milioni di dollari. Più splendido di qualunque Stradivari. D’altronde anche Paganini prediligeva i Guarneri».