La Stampa, 7 giugno 2023
L’esame di maturità di Bianca Pitzorno
So, perché l’ho sentito dire da altri e perché l’ho letto sui giornali, che gli italiani che hanno fatto l’esame di maturità, specie quelli più o meno miei coetanei, ne conservano un ricordo vivissimo e in generale non piacevole. Una prova affrontata con grande ansia, una sorta di “rito di passaggio” che li traghettava con molte sofferenze all’età adulta. Pare che tra gli incubi che tormentano gli italiani fino alla vecchiaia ci sia qualche episodio legato all’esame di maturità, o comunque all’apprensione generale che lo caratterizza.Evidentemente non siamo tutti uguali. Io non ho alcun ricordo di questo genere. Dell’esame di maturità, anzi, non ricordo nulla. E quando mi sono state mostrate le tracce dei temi tra le quali dovevamo scegliere nel 1961, anno della “mia” maturità, non ne ho riconosciuta nemmeno una. Evidentemente ne ho svolta una delle tre, e anche bene, perché alla fine nella mia pagella in italiano risultava un bell’otto. Ma nella mia memoria c’è un vuoto totale. E non solo. Dopo avere scritto e pubblicato nella mia vita più di sessanta libri, non sarei capace oggi di svolgere nessuno dei tre componimenti.Ricordo invece perfettamente il tema che avevo svolto cinque anni prima per l’esame di terza media. Difficile dimenticarlo, perché fu il mio primo testo scritto ad avere, come si diceva, “l’onore delle stampe”. Si trattava della descrizione della strada principale dell’allora villaggio di pescatori dove ogni estate andavo in vacanza, Stintino, ed era piaciuto tanto alla commissione d’esame da farglielo proporre al quotidiano di Sassari, La Nuova Sardegna, che lo pubblicò nella Terza pagina, quella della cultura, insieme al tema di una mia cara amica e compagna di classe che invece aveva descritto la strada principale di Alghero.Nei successivi due anni di ginnasio e tre di liceo mi capitò spesso di ricevere menzioni per i componimenti che ci venivano proposti al di fuori del programma scolastico, come quello per la “Festa degli alberi”, in cui ricordo di avere scritto della deforestazione della Sardegna da parte dei carbonai toscani e dei piemontesi, che oltre al combustibile avrebbero utilizzato il legno per la costruzione delle linee ferroviarie. (Giuseppe Dessì avrebbe scritto il suo pluripremiato romanzo su questo argomento, Paese d’ombre, solo nel 1972.)L’anno della mia terza liceo ci toccò di svolgere un tema sull’Unità d’Europa. Io avevo fatto qualche viaggio fuori dalla Sardegna ma non ero mai stata fuori dall’Italia. Eppure ero fermamente convinta che le nazioni europee dovessero unirsi. Quattro anni prima la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) si era trasformata in Cee, Comunità economica europea, alla quale appartenevano l’Italia, il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi.Il mio tema conteneva una proposta alquanto drastica (ispirata forse a La città del sole di Campanella, o al fatto che l’anno prima mi ero innamorata di un bellissimo diciassettenne tedesco venuto in campeggio in Sardegna). Bisognava vietare per una cinquantina d’anni tutti i matrimoni tra persone della stessa nazionalità, in modo che i figli di queste coppie e i figli dei figli a un certo punto non potessero più dirsi italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, ma soltanto europei. Evidentemente nella commissione non c’erano sovranisti o strenui difensori delle “radici”, perché il mio tema era stato premiato. Il premio consisteva in un viaggio a Torino dove noi ragazzi avremmo partecipato alle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia. E poi saremmo stati riuniti in gruppi di diversa nazionalità e avremmo fatto un viaggio di una quindicina di giorni in uno dei Paesi della Cee. (A me sarebbe toccata la Francia meridionale. Eravamo in trenta coetanei, ospitati in modo alquanto spartano in campeggi, case dello studente, persino strutture semicarcerarie per i rivoluzionari algerini, rifugi di montagna. Sulle Alpi francesi, al Col de Rousset, fui morsicata da una vipera e liberata dal veleno con un metodo locale contadino piuttosto cruento… L’Austria avrebbe invitato soltanto nove studenti, alloggiandoli in alberghi a dieci stelle, accompagnandoli nei migliori teatri e musei. Ma quando ci ritrovammo tutti a Torino per tornarsene ognuno a casa propria, risultò che noi trenta ci eravamo divertiti molto più di quei “signorini”.)La notizia che avevo vinto questo premio e le istruzioni per raggiungere Torino (il primo viaggio in “continente” senza i miei genitori) arrivarono verso Pasqua, e la prospettiva cancellò tutte le preoccupazioni, se mai ne avevo avute, per l’esame di maturità. Oltretutto non ero molto impaziente di lasciare il liceo. Sapevo che mio padre aveva per il mio futuro universitario progetti diversi da quelli che erano i miei desideri. Se anche, ipotesi assurda vista la media dei miei voti, mi avessero bocciata e avessi dovuto ripetere l’anno, per me non sarebbe stata una tragedia. Al liceo, tutto sommato, mi divertivo. Ma venni promossa con la media dell’otto. Dopo mesi di contrasti mi dovetti rassegnare a iscrivermi a una facoltà che non mi piaceva. Impiegai sette anni per terminare un corso di laurea che ne prevedeva quattro. Così oggi posso dire che il mio vero rito di passaggio, l’inizio di quella che sarebbe stata la mia vita adulta, il momento della mia “liberazione”, fu la mia tesi di laurea, la cerimonia in cui il Magnifico Rettore in nome del popolo italiano mi proclamava “dottoressa”. Laurea che il mese dopo gettai alle ortiche per andarmene “in continente” a studiare Cinema e Televisione. Ma questo con l’esame di maturità non ha molto a che vedere.