La Stampa, 7 giugno 2023
La situazione in Tunisia è nera
«Lei dice a voce alta quello che gli altri tacciono» sono le parole che il Presidente tunisino Kais Saied ha riservato alla premier Giorgia Meloni durante la visita di ieri, nel lungo colloquio (quasi due ore) che li ha visti protagonisti.
Al centro la gestione dei flussi migratori, le politiche di investimenti e soprattutto lo sblocco del piano di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale sospeso da febbraio. Meloni ha confermato il sostegno a Saied, nonostante l’inasprimento delle politiche repressive in un Paese in cui la democrazia è ormai sospesa di fatto da due anni. «Abbiamo portato avanti un’azione di sostegno alla Tunisia nei negoziati con il Fondo Monetario Internazionale - ha detto la premier - sia a livello di Unione europea sia di G7, con un approccio pragmatico, perché pragmatico deve essere l’approccio, chiaramente tenendo in considerazione le regole di funzionamento del Fondo».
Quando parla di pragmatismo la premier Meloni sottintende che l’Europa, l’Italia in primis, non può permettersi il default della Tunisia perché questo equivarrebbe a un’ondata di arrivi dalle coste del Paese nordafricano. Ma che Paese è oggi la Tunisia? E sarebbe davvero applicabile il piano di riforme che il Fondo Monetario chiede come condizione del prestito?
La libertà di stampa
A fare le spese della virata autoritaria della presidenza Saied è anche la libertà di stampa, una delle principali conquiste della rivoluzione del 2011.
Lo scorso 16 maggio Haythem el Mekki, conduttore della popolare emittente radiofonica Mosaique FM è stato convocato in tribunale, con l’accusa di diffamazione verso le forze dell’ordine dopo che il giorno prima durante la trasmissione che da anni conduce ogni mezzogiorno aveva parlato della corruzione endemica nelle forze armate. Erano passati pochi giorni dall’attacco terroristico di Djerba in cui hanno perso la vita due persone e tre agenti di sicurezza nell’attacco effettuato da un membro della guardia nazionale e El Mekki analizzando l’accaduto metteva in luce gli scarsi standard di reclutamento degli agenti e le conseguenze dell’applicazione del dannoso Decreto 54 che di fatto pone i media nazionali in uno stato di censura e timore di ritorsioni permanente. Emanato nel settembre del 2022, il decreto nasce allo scopo di punire i reati relativi all’informazione ma è di fatto una norma repressiva che si concentra sulle pene detentive fino ai dieci anni su chi presuntamente diffonde notizie ritenute dal governo "fake news". L’altra norma sotto la lente delle organizzazioni in difesa dei diritti umani è la legge anti-speculazione, sempre emanata nel 2022, che criminalizza la diffusione di «notizie o informazioni false o inesatte che indurrebbero i consumatori ad astenersi dall’acquistare o interromperebbero l’offerta di beni ai mercati e quindi causerebbero aumento dei prezzi».
Legge definita da Amnesty International una minaccia alla libertà di espressione e che a oggi ha portato all’arresto di una quindicina di persone.
Lo stesso direttore della testata, Noureddine Boutar, è stato arrestato a febbraio insieme ad altri 30 oppositori politici del presidente, accusati di riciclaggio e di complotto contro lo Stato. Un altro giornalista della stessa emittente Khalifa Guesmi è stato condannato a cinque anni di carcere dopo aver rifiutato di rivelare le fonti di un articolo sullo smantellamento di un gruppo terroristico nella città meridionale di Kairouan. Guesmi è stato interrogato per nove ore e accusato di avere legami con i gruppi terroristici citati nei suoi articoli.
A fare le spese delle politiche repressive non sono solo i cronisti. Il 17 maggio la polizia ha arrestato due studenti per aver pubblicato su social una canzone satirica sulla polizia, criticando il trattamento che le forze di sicurezza riservano ai carcerati. Rischiano fino a un anno di carcere.
Il governo di Kais Saied limita da anni il lavoro dei media, Amira Mohamed, vicepresidente dei sindacati dei giornalisti, è preoccupata per la libertà di espressione e la libertà di stampa «il lavoro giornalistico è sempre più difficile - ha detto - essere un cronista oggi in Tunisia significa sapere di rischiare il carcere e questo sta favorendo forme di autocensura», molti media privati hanno interrotto i programmi di approfondimento politico e va peggio, come è ovvio, nel settore pubblico dove è ancor più complicata l’indipendenza, e dove il presidente ha diritto di nomina del direttore.
La giustizia
Non va meglio per l’indipendenza della magistratura. Il mese scorso 37 organizzazioni tra cui Human Rights Watch e Amnesty International hanno pubblicato una dichiarazione congiunta esprimendo preoccupazione per le politiche repressive contro la magistratura e i limiti al diritto di un equo processo in Tunisia. I gruppi firmatari hanno chiesto la fine delle «ingerenze esecutive negli affari giudiziari» e il rispetto del diritto fondamentale a un processo equo da parte di un «tribunale indipendente e imparziale».
Anche nel controllo della magistratura, infatti, il percorso di Kais Saied dura da anni. Da quando ha preso il potere, nel 2021, ha emanato una serie di decreti che hanno di fatto privato il potere giudiziario delle prerogative che gli sono proprie. Il primo già nel 2022, abrogando l’ordine costituzionale e emanando una nuova Costituzione l’anno dopo attraverso un referendum votato con un’affluenza inferiore al 30 per cento che ha privato il Consiglio Superiore della Magistratura della sua sostanza e del suo status di organo costituzionale.
Con il Decreto n. 2022-11 Saied ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura istituito dalla Costituzione del 2014 che garantiva l’indipendenza della magistratura, sostituendolo con un Consiglio provvisorio, i cui membri sono nominati direttamente da Saied. Ha poi destituito 57 giudici dopo essersi conferito un’ennesima delega con un ennesimo decreto. Nonostante la causa promossa dai giudici revocati e nonostante il tribunale amministrativo tunisino abbia chiesto il loro reintegro, il governo non solo si rifiuta da due anni di rispettare la sentenza ma il ministero della Giustizia ha avviato procedimenti penali contro i giudici destituiti, accusandoli retrospettivamente attraverso l’unità giudiziaria antiterrorismo.
Un sistema giudiziario compromesso, sotto il controllo diretto del Presidente Saied e che, dunque, non è più in grado di svolgere il ruolo di garante delle libertà e dei diritti fondamentali.
Economia al collasso
In Tunisia cominciano a mancare medicinali di base.
Non ci sono soldi e quindi lo Stato deve ridurre anche le importazioni di medicinali costringendo i cittadini a due strade: l’attesa o il contrabbando. Sugli scaffali delle farmacie cominciano a mancare i trattamenti costosi per malattie cardiache e cancro ma anche medicinali di base e i generici.
Il capo del sindacato tunisino delle farmacie, Naoufel Amira, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters pochi giorni fa che centinaia di medicinali non sono più disponibili, inclusi quelli per il diabete, l’anestesia e il trattamento del cancro.
«La farmacia centrale tunisina - ha detto - devono circa 1 miliardo di dinari (325 milioni di dollari) ai fornitori e le compagnie di assicurazione pubblica e gli ospedali stanno ritardando il pagamento delle bollette fino a un anno».
È questo l’ultimo segno in ordine di tempo della portata della crisi economica tunisina che sta trascinando un numero sempre crescente di famiglie in uno stato di indigenza che rischia di sfociare in nuove ondate di proteste e rabbia sociale.
Orizzonte che rende quanto mai necessario il prestito di due miliardi di dollari previsto dal piano di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale sospeso da febbraio, dopo l’inasprirsi delle politiche repressive di Saied. A colloqui archiviati e con gli allarmi delle agenzie di rating che mettono il Paese in allerta su un possibile, rapido, default sul debito sovrano, l’Europa trema e Saied continua a respingere le condizioni poste dal Fmi che prevedono una drastica riduzione della spesa pubblica e un piano di riforme che imporrebbe un ripensamento globale del finanziamento di beni sussidiati, politica che, però, sostiene le famiglie tunisine da decenni.
La Tunisia sovvenziona i generi alimentari di base dagli Anni 70, inizialmente per tutelare le fasce più povere della popolazione dalle variazioni fuori controllo dei prezzi, ma con le crisi economiche e la conseguente riduzione dei redditi, i sussidi sono diventati sempre più necessari per un numero crescente di persone e sono stati anche la ragione delle proteste per il pane che attraversano la storia delle proteste sociali nel paese da quarant’anni.
Oggi la Tunisia spende circa 800 milioni di dollari l’anno in sussidi, l’equivalente del 5% del PIL, mentre le necessità del Paese aumentano a causa della guerra in Ucraina e il relativo aumento dei prezzi e aumentano dunque le richieste di trasferimento di denaro alle famiglie più bisognose.
In questo contesto è evidente la necessità del prestito internazionale fondamentale per risollevare il Paese e dare il via al programma di riforme necessario per liberare ulteriore credito promesso da altri donatori.
Ma Kais Saied da mesi si oppone a quelli che definisce i "diktat" esteri, lasciando dapprima immaginare possibili salvataggi da uno degli stati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che però appare lontano, e poi suggerendo la possibilità di aumentare la tassazione alle fasce privilegiate del paese per aumentare la liquidità. Max Gallien, politologo e ricercatore presso l’International Center for Tax and Development e l’Institute of Development Studies, in un’analisi per Newlines Magazine, sottolinea che il governo tunisino sia storicamente il più grande datore di lavoro del Paese, e «tagliare il salario pubblico metterebbe milioni di tunisini in difficoltà finanziarie. I tagli alle sovvenzioni sono comprensibilmente impopolari e la ristrutturazione delle imprese statali è sia praticamente una sfida che un affronto per i grandi gruppi politici».
Saied lo sa, è per questo che le condizioni del Fmi sono per lui politicamente indigeribili, ed è per questo che, in assenza di alternative e soluzioni, l’unico strumento che ha per indirizzare la rabbia e lo scontento sociale in una direzione lontana dalle sue responsabilità cerca da mesi capri espiatori, come i migranti di origine subsahariana a febbraio, accusati in un discorso pubblico di voler alterare la demografia del Paese.
Le riforme di cui la Tunisia ha bisogno richiedono un tempo lungo e una visione economica di ampio respiro che è mancata negli anni post rivoluzionari, in cui il Paese è stato più impegnato a liberarsi dell’eredità della dittatura di Ben ALi che a costruire un programma di futuro, non solo economico, condiviso. Un periodo, quello post 2011, in cui partiti erano più impegnati a consolidare le proprie reti di potere che a immaginare un orizzonte di lungo periodo del Paese, condizione che ha portato a una disaffezione dell’elettorato verso i partiti che hanno governato per quasi dieci anni e ha aperto la strada al consenso intorno Saied e persino a ritenere preferibile, almeno sulle prime, il suo autoritarismo a patto di una migliore amministrazione. Oggi di questo compromesso, però, rimane solo l’autoritarismo, Kais Saied continua a non avere soluzioni e non può permettersi una crisi sociale, non può permettersela nemmeno l’Europa, terrorizzata dal possibile arrivo di una nuova ondata migratoria. Per questo anche l’Europa oggi sta in fondo stringendo un compromesso con l’autoritarismo di Saied, chiudendo un occhio o forse entrambi sul rispetto dei diritti in cambio del controllo delle coste.