Corriere della Sera, 7 giugno 2023
Roberto Cazzola rievoca gli anni in Einaudi e Adelphi
Le «memorie editoriali» di Roberto Cazzola (Un quarto di pera di Giulio Einaudi, Edizioni Seb27) non raccontano solo trent’anni di lavoro culturale, ma mettono in gioco un’idea di editoria e di letteratura che da tempo va declinando. Oltre a Einaudi, visto da molto vicino, c’è Roberto Calasso, perché Cazzola ha lavorato dagli anni Settanta prima in via Biancamano a Torino, nelle stanze dello Struzzo, poi in via San Giovanni sul Muro, a Milano, nella redazione Adelphi: all’inizio come redattore di storia poi come editor a tutto campo, infine come germanista. È dunque un testimone privilegiato di quella lunga stagione in cui «dare vita a un libro» era un gioco serio, come dichiara un bel capitolo centrale di questo racconto-memoir che si fa saggio letterario e morale. Testimone di quel «lavoro culturale» su cui Luciano Bianciardi negli anni Cinquanta aveva riversato la sua ferocia satirica, Cazzola lascia trasparire nella sua esperienza non solo il buono ma anche un po’ di quella crudezza e persino crudeltà che perdurava nei «migliori anni della nostra vita», quando il patron era padre-padrone nelle sue infinite variazioni: capriccioso, imprevedibile, severo, generoso, tirannico.
«Ho amato Giulio Einaudi di un amore ilare e filiale». Questo l’incipit. Certo, se è facile immaginare Cazzola nella parte del figlio, rispettoso ma anche dispettoso, è più complicato pensare a Einaudi nelle vesti del padre tradizionale, autoritario sì, ma anche saggio e protettivo. «E Calasso? Com’era Calasso?», gli chiedono in molti. Se con Einaudi il rapporto tracimava entro le rispettive vite private, con Calasso rimaneva strettamente limitato alla sfera professionale: niente pranzi, cene, confidenze e ferie in comune. Qualche lampo e qualche cedimento sì. Per esempio, il pianto che interruppe l’omaggio funebre a quell’«essere chiaro e illuminato» che era Luciano Foà, il fondatore della casa editrice.
Soprattutto, dice Cazzola, si impara non solo dalla lettura dei libri ma dal lavorare insieme attorno ai libri. Insieme è avverbio importantissimo: «Ecco, a dar senso e pienezza al lavoro editoriale è questo continuo misurarsi con gli altri, questa indispensabile uscita dalla cella monastica…». Nell’«insieme» vissuto da Cazzola ci sono tanti amici, e «amico» credo che sia una delle parole più ricorrenti nel libro. Ci sono lo storico Corrado Vivanti, suo primo capufficio alla Einaudi con il quale Cazzola si laureò a Torino; Cesare Cases, il critico militante di suprema intelligenza e ironia; Claudio Rugafiori, compagno d’ufficio, lettore principe, consulente editoriale e traduttore; Piero Gelli, direttore editoriale di rara eleganza e visionarietà; l’editore svizzero Libero Casagrande. E molti altri, ovviamente.
In tanti anni di attività editoriale, se ne conoscevano allora di personaggi destinati a rimanere nella memoria anche solo per un gesto o per una parola: Giulio Bollati, Primo Levi, Italo Calvino, Gianfranco Contini, Daniele Del Giudice. Ma quell’«insieme» resta fondamentale anche quando si lavora con le primedonne o con i «primiuomini»: Cazzola ricorda, per esempio, il «serrato corpo a corpo sul testo condotto insieme a loro», cioè con i traduttori e le traduttrici, confronti sfinenti per aggiustare una parola, evitare una ripetizione, dare aderenza a un giro di frase. Era l’attività quotidiana che distingue una casa editrice dall’altra: la traduzione, la scelta di una copertina, un risvolto…
Tra gli aneddoti divertenti c’è il quarto di «succosissima» pera che Einaudi, al ristorante, metteva sul piatto del giovane amico, il quale non osava rifiutarlo pur non mostrando alcun desiderio e anzi magari essendone lievemente schifato. Prendere o lasciare: la malignità, persino il leggendario sadismo o la prevaricazione. Di chi allungava la forchetta nel tuo piatto per rubarti fulmineamente (e sfacciatamente) qualcosa. Con estrema lucidità, Cazzola racconta la rottura dell’amicizia con Oreste Del Buono, direttore dei Tascabili, quando impose all’editor le Formiche, il libro di Gino & Michele, che gli pareva «indegno di seguire il Contre Sainte-Beuve di Proust». Racconta anche i viaggi in auto (la sua) con a bordo Massimo Mila e l’editore che nominava ogni vetta e ogni rifugio della Val d’Aosta dando dell’ignorante al giovane amico disinteressato a quel ben di Dio naturalistico. Si trattava sempre di un rapporto sul filo dell’affronto, bilanciato da atti di generosità imprevedibili, come il regalo di una bella camicia di lino verde su cui il giorno prima Roberto aveva espresso la sua ammirazione.
Si potrebbe continuare nell’elenco degli episodi divertenti o irritanti, ma è ora di passare al livello più profondo del libro, che dalle relazioni umane fa derivare il senso del lavoro culturale: era una cosa ben diversa leggere e proporre libri per Einaudi o farlo per Adelphi. Da qui un’idea «militante» (o se si vuole civile) della letteratura. La chiave, per Cazzola, è in una frase che Milan Kundera scrisse riprendendo un pensiero di Hermann Broch: «Un romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale. È la conoscenza la sola morale del romanzo». È un punto di vista certamente poco al passo con i tempi nostri, ma che ha radici nei «libri necessari» scovati dal «protolettore» Bobi Bazlen (a cui Cazzola dedica un capitolo del suo libro). Tra l’editore e lo scrittore, fa capire Cazzola, c’è una comune tensione nella capacità di valorizzare la memoria per investire nel futuro, perché si sa che l’editoria, come la letteratura, è un’arte che rischia oggi per raccogliere non necessariamente oggi ma domani, evitando di cavalcare malamente le mode ma anticipando motivi, modi, linguaggi e additando verità che verranno. Gli esempi che ci propone Cazzola sono nomi che ha amato e che ha letto in qualità di editor. Gli scrittori che puntano sull’ibridazione tra storia e memoria: Sebald, Schlesak, Wodin, Petrowskaja, con il suo desiderio di «chiamare in vita i morti» e «molestare gli spiriti del passato»: non per un vano gusto nostalgico ma per mettere in moto una «strategia cognitiva». E poi i classici visionari del Novecento capaci di ascoltare il presente per «indovinare il mondo»: Kafka, Benjamin, Dürrenmatt, Calvino.
Dove finisce l’inattuale e dove comincia l’omologazione? Dove finisce l’autocelebrazione e dove comincia lo sguardo sul mondo? Dove finisce il narcisismo della parola che parla a sé stessa e dove comincia il coraggio di un linguaggio nuovo o davvero sperimentale? Dove finisce l’edonismo estetico e dove comincia il piacere del testo? E dove finisce il piacere del testo e comincia l’ossessione della vendibilità? Sono domande che Roberto Cazzola si pone riferendo, per esempio, di una ampia discussione che si aprì in Germania nella seconda metà degli anni Novanta. Se ci fermiamo qua, è perché tanto dovrebbe bastare a rendere la varietà dei punti di vista, delle esperienze, delle proposte di lettura che offre questo libro, chiuso dal cantiere letterario che Cazzola ha animato per anni. Un libro felice sulla felicità del pensare e del fare libri.