il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2023
Italia: il problema non sono i sussidi, ma i troppi precari
Nel 2008, un noto economista scomparso qualche anno fa, Paolo Leon, scriveva un libro straordinario (con R. Realfonso), che descriveva bene la deriva del nostro sistema economico e in particolare del mercato del lavoro: L’economia della precarietà.
L’economia della precarietà è caratterizzata da un mercato del lavoro iper flessibilizzato, con forme atipiche di lavoro, con precarietà diffusa, con continue interruzioni di rapporti e mancanza di stabilizzazioni. Una economia che non consente accumulazione di capitale umano, competenze, formazione e quindi produttività. Un mercato che si fonda astrattamente su parole chiavi come dinamismo e mobilità, ma che in realtà si basa su instabilità, su incertezze, che si riversano negativamente anche nelle relazioni umane e nella società, contribuendo a generare quella società liquida e impaurita come ebbe a scrivere Zygmunt Bauman. In quegli anni si contavano 48 tipologie di rapporti di lavoro, con contratti a tempo determinato, a chiamata, intermittente, in condivisione, a progetto, di collaborazione, in somministrazione, stagionali, occasionali, part-time, acausali, voucher, ecc. La gran parte di queste forme sono tuttora vigenti e in alcuni casi rafforzati rispetto a qualche anno fa, come il caso dei voucher e dei tempi determinati acausali dopo il dl Lavoro del 1º maggio 2023. Una impresa ha a disposizione un menu di forme contrattuali da applicare, sulla base unicamente del risparmio di costo. Il lavoratore è soggetto a uno scambio continuo, una mercificazione del suo lavoro, una temporaneità che rende impossibile la progettualità di vita, la serenità lavorativa e di riflesso la qualità della sua vita. Dopo il decreto Dignità nel 2018, il lavoro a termine ha avuto un calo, come dimostra il grafico riferito ai soli giovani, per poi riprendere a crescere nel 2022, e oggi Inps calcola 4,2 milioni di rapporti di lavoro temporanei, un record.
Queste forme di lavoro temporanee, insieme ai bassi salari orari, che colpiscono soprattutto giovani e donne, sono causa di impoverimento e generano working poor. In pratica, si rimane poveri pur lavorando, e allora viene meno l’incentivo a lavorare, perché alla fatica si aggiunge l’impoverimento e la mancanza di tempo che non rende liberi gli individui.
Non solo. A valle di questo impoverimento, lo Stato è chiamato a incrementare la spesa sociale per sostenere i redditi. In sostanza si crea precarietà per legge che richiede un aumento di spesa in sicurezza sociale per cercare di tutelare in qualche modo il lavoratore povero.
Le esigenze di flessibilità quindi, quando non necessarie e spurie, che creano povertà, richiedono il sostegno da parte dello Stato, con il paradosso che il costo è duplice: in termini umani di sfruttamento e instabilità, e in termini di spesa pubblica a carico della collettività e a beneficio di imprese evidentemente decotte che altrimenti non riuscirebbero a stare sul mercato, oppure che ci stanno galleggiando, facendo risparmi sul costo del lavoro.
L’economia della precarietà ha un impatto anche sui consumi e sulla domanda, sugli investimenti individuali, sulla crescita dell’economia. Non è un caso che alla vigilia della pubblicazione di quel libro, si andava incontro nel 2008-2009, alla più grave crisi di sottoconsumo, rispetto alla produzione, mai verificata dopo la Seconda guerra mondiale, che tra l’altro avrebbe richiesto uno sforzo pubblico straordinario, in sostegno alla domanda, come avvenne negli Stati Uniti all’indomani del crollo di Lehman Brothers, ma che in Europa al contrario portò, in modo miope, a programmi di austerità che approfondirono la crisi. Negli Usa, invece, Barack Obama varò all’epoca uno dei più grandi programmi pubblici della storia americana recente, il cosiddetto ARRA (American Recovery and Reinvestment Act) per circa 800 miliardi di dollari e l’inizio della diffusione dei cosiddetti green jobs.
Ma veniamo alla crisi attuale e all’impatto dell’economia della precarietà sulla vita delle persone.
Succede che negli ultimi anni, anche grazie al Reddito di cittadinanza, abbiamo scoperto che il nostro mercato del lavoro è gravemente malato. È malato di bassi salari e di precarietà (non di sussidi). È malato di economia nera e lavoro irregolare. E i fenomeni spesso sono correlati con infortuni e morti sul lavoro. Le persone, i giovani, in questo contesto, e giustamente, fanno fatica ad accettare un lavoro qualsiasi che venga loro proposto. Si prendono il legittimo lusso, da cittadini di un Paese avanzato, di rifiutare offerte di lavoro non congrue sotto un punto di vista economico, di competenze, di distanza, di condizioni e di qualità. I giovani sanno che lavorare con le tecnologie moderne porta più alti salari; sanno che lavorare con lo smart working rende più liberi; sanno che in un Paese avanzato non bisognerebbe emigrare per lavorare, lasciare i propri affetti e la propria casa, perché questo aumenta i costi del vivere, l’incertezza, ma anche le privazioni, e soprattutto, con la crisi pandemica del Covid, queste paure sono diventate più forti.
E allora che fare? Bisogna spingere imprese e Stato a investire nelle tecnologie moderne, a creare lavori buoni, da Paese avanzato, a lasciar perdere i settori “facili” e i cattivi lavori ad alta intensità di lavoro, che causano sfruttamento e bassi salari. Il turismo e la ristorazione, pur importanti, sono settori residuali in un Paese grande e avanzato, mentre bisogna sviluppare politiche industriali che creino segmenti produttivi ad alto contenuto tecnologico, far leva solo su innovazione, ricerca e sviluppo, e non sul costo del lavoro per aumentare la competitività. Questo permetterebbe di aumentare crescita, qualità della vita e sviluppo umano, piuttosto che rincorrere schemi obsoleti che fanno riferimento al mantra arcaico del “guadagnarsi da vivere”.