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 2023  giugno 06 Martedì calendario

Un matrimonio che non s’ha da fare

Nel 1961, quando il Moma gli dedicò la sua prima retrospettiva, Mark Rothko andava ogni giorno a visitarla per osservare le sue quarantotto opere in uno spazio nuovo, e per scrutare le reazioni del pubblico, con la paura di essere frainteso.

Ai giornalisti e agli amici stupiti da questa continua presenza ripeteva che non gli interessava dipingere solo per gli studenti di disegno o per gli storici, ma per tutti gli esseri umani. La spiegazione dei suoi dipinti doveva emergere da una comunione profonda tra l’immagine e l’osservatore. «L’apprezzamento dell’arte è un vero matrimonio dei sensi» diceva. «Se non viene consumato, si arriva all’annullamento».

E qualche volta si è anche costretti a rompere la promessa.

A Rothko era capitato due anni prima. Il 25 giugno del 1958, ormai apprezzatissimo per le sue campiture di colori luminosi – una festa di gialli e rossi, verdi e azzurri, arancioni e rosa –, aveva firmato un contratto di trentacinquemila dollari per dipingere le Decorazioni, una serie di grandi tele per le pareti della sala di un lussuoso ristorante che stava per aprire all’interno del Seagram Building. Nel giugno del 1959, spossato da un anno di lavoro, tutti i giorni dalle 9 alle 17, e insoddisfatto di come erano venute le tele, decise di prendersi una pausa e si imbarcò per Napoli.

Una notte, mentre girovagava nel bar del transatlantico, incontrò John Fischer, a quel tempo editore di «Harper’s Bazaar». I due uomini fecero amicizia, e Rothko confidò a Fischer di aver già dipinto una quarantina di opere per l’esclusivo ristorante: «Un posto dove i bastardi più ricchi di New York andranno a sfamarsi e a pavoneggiarsi». Spiegò che aveva accettato l’incarico come una sfida e con le peggiori intenzioni: «Con la speranza di dipingere qualcosa che rovini l’appetito a tutti i figli di puttana che entreranno in quella sala per mangiare».

Raccontò che per raggiungere l’effetto opprimente che cercava, aveva abbandonato le tinte felici usate fino ad allora, e si era servito di una tavolozza scura, più cupa di quanto non avesse mai tentato prima, composta di marroni scuri e di rossi simili al sangue rappreso. Mentre lavorava si era accorto di essere influenzato inconsciamente dalle pareti di Michelangelo nel vestibolo della Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze, visitata nel suo precedente viaggio in Italia. Ricordava che in quel vestibolo aveva provato la sgradevole sensazione di essere rinchiuso in una stanza con le porte e le finestre murate. Era esattamente quello che voleva provocare nei clienti del ristorante: spingerli a «rompersi per l’eternità la testa contro il muro». E aggiungeva: «Se il ristorante si rifiutasse di appendere i miei dipinti, per me sarebbe il più gradito dei complimenti. Ma non lo farà. La gente oggi è disposta a sopportare di tutto».



Confidò a Fischer che in corso d’opera aveva provato a modificare l’idea originale, per paura di essere troppo spietato. Ma si era ravveduto quasi subito. Anzi, cercava di mantenere viva la propria irritazione fino al rientro dal viaggio. Era sicuro che, incalzato dalla rabbia, avrebbe finito più in fretta il lavoro.

Andò a Pompei e scoprì una profonda affinità tra il suo lavoro e le pitture murali della Casa dei misteri, «le stesse sensazioni, le stesse ampie distese di colore opaco». Andò a Paestum e disse: «Per tutta la vita non ho fatto altro che dipingere templi greci senza saperlo».

Quando rientrò a New York, poiché il ristorante nel frattempo era stato inaugurato, vi portò a cena la moglie. E rimase così sconvolto dall’ambiente pretenzioso, e dal tipo di clientela, che decise su due piedi di rinunciare al progetto. Non ci poteva essere alcun dialogo tra quella gente e le sue opere. Figuriamoci un matrimonio.

Restituì bruscamente l’anticipo e si tenne i dipinti. Alcuni li avrebbe poi donati alla Tate Gallery di Londra. La sua ultima opera furono i pannelli per la Rothko Chapel di Huston.

Vent’anni più tardi, quando seppe che Rothko si era tolto la vita nel suo studio, tagliandosi le vene dopo aver inghiottito una massiccia dose di barbiturici, Fischer scrisse: «Forse le mie sono solo congetture, ma sospetto che la morte di Rothko sia legata al fatto che oggi gli artisti non siano incoraggiati a dipingere templi. Per secoli questo è stato uno dei loro compiti principali. [...] Col passare del tempo questa funzione venne meno, a causa dell’invenzione della stampa, del declino della religione, della comparsa della macchina fotografica. Nel XX secolo, non si riconobbe più agli artisti un ruolo esclusivo per quanto riguarda la creazione di immagini. Era inevitabile che molti cominciassero a considerare il loro lavoro come essenzialmente decorativo, un ornamento per la società piuttosto che un nutrimento per l’anima».



Gerhard Richter disse di avere avuto reazioni diverse di fronte all’opera di Rothko: «Era al tempo stesso troppo sacra e troppo decorativa. Sebbene i dipinti avessero un’aspirazione alla trascendenza, erano impiegati per scopi decorativi, ed erano bellissimi negli appartamenti dei collezionisti».