La Stampa, 6 giugno 2023
Riscoprire Anita Garibaldi
Il Risorgimento sui libri di scuola è una parata di condottieri irriducibili e Padri della Patria, di stampelle scagliate al nemico, libri scritti col sangue, fucilazioni a petto in fuori. Di quel Bignami di eroi, improbabili come un western di John Ford, ha fatto le spese anche Anita Garibaldi. L’iconografia ce la tratteggia come una figuretta di risulta, funzionale all’ingombrante epica del marito, ma Ana Maria de Jesus Ribeiro è stata molto altro, molto di più.
Per resettarne la narrazione, in Anita (Einaudi) la studiosa Silvia Cavicchioli era ripartita dalle fonti. Ora al cinema è uscita La versione di Anita di Luca Criscenti, co-produzione italo-brasiliana (Land Comunicazioni e Zapata Filmes) in collaborazione con Rai Documentari.
Ispirato proprio al libro di Cavicchioli (presente nel film come sceneggiatrice e narratrice), La versione di Anita è un documentario con un nocciolo di fiction tanto bizzarra quanto intrigante. Ana, ancora viva e giovane ai giorni nostri, si racconta nell’atmosfera intima di un programma radiofonico, condotto dallo speaker Rai Marino Sinibaldi. «Mi rendo conto che ci siamo presi un rischio», sorride il regista Luca Criscenti. «Lei che esordisce dicendo di essere nata duecento anni fa e che alla fine continua a parlare di sé da morta richiede una sospensione d’incredulità molto forte. Se però lo spettatore ci sta, tutto poi funziona».
E in effetti sì, il film funziona. Nell’analisi accurata dei documenti, nell’emozione di ritrovarsi nei luoghi in cui Ana è vissuta, ma anche nelle sequenze narrative, girate con sguardo cinematografico. Perfetti per fisicità Flaminia Cuzzoli nei panni della protagonista e Lorenzo Lavia in quelli di un Giuseppe Garibaldi gustosamente dimesso. A raccontare Anita, con parole d’amore che sfociano nella commozione, c’è anche lo scrittore Maurizio Maggiani.
«In tutti i luoghi in cui è vissuta abbiamo riscontrato un affetto incredibile», racconta Criscenti. «A Laguna, dov’è nata, ci hanno fatto festa donne in costume locale, in Uruguay c’era una professoressa che sapeva tutto di lei e ci ha indicato dove si trovava la tomba della piccola Rosa, la figlia morta a due anni di vaiolo. Per non parlare dell’Italia. Nel ravennate la sua figura gode ancora di un autentico culto. Lo stesso nome Anita è una creazione nostrana, finché è vissuta in America Latina per tutti lei era solo Ana, tutt’al più Aninha».
Nel film spicca evidente il tocco femminile di Daniela Ceselli, che insieme a Criscenti ha firmato la sceneggiatura. Autrice per Paolo Franchi e Marco Bellocchio (La balia, Buongiorno notte, Vincere fino all’ultimo dibattutissmo Rapito), Ceselli ha soffiato via da Ana la fuliggine della retorica, restituendola alla sua reale complessità. «È un peccato che non sia mai stata valorizzata se non in coppia con Garibaldi», spiega. «Di certo non era l’invasata che ci è stata tramandata, al contrario era un personaggio straordinario, molto indipendente, che già da ragazzina cavalcava a pelo e nuotava nuda. E che non esitò a raggiungere l’Italia da migrante, attraversando l’oceano da sola con i suoi bambini. Aderì alle cause libertarie sospinta non dall’ideologia o dalla convenienza, ma dai sentimenti, dall’istinto. In fondo quand’è morta non aveva ancora 28 anni. Era come tutti noi da ragazzi, quando le cose le facevamo senza un motivo, soltanto perché sentivamo che era giusto così».
Dopo la première mondiale al Festival di Punta del Este (Uruguay) – e in attesa del passaggio di domani al Festival de Derechos Humanos di Buenos Aires – il film ha avuto la sua prima italiana la settimana scorsa al Farnese di Roma. E ora il film è in tour con Exit Media: dopo l’Orione di Bologna sarà oggi all’Amiata di Abbadia San Salvatore e sarà domani al Centrale di Torino.