Corriere della Sera, 6 giugno 2023
La distensione in Vaticano
Achille Silvestrini (1923-2019) è stato un testimone particolarissimo della Ostpolitik della Chiesa nella seconda metà del Novecento. Stretto collaboratore del segretario di Stato Domenico Tardini, poi del successore Amleto Giovanni Cicognani e, con un ruolo diverso, di Agostino Casaroli, divenne anche l’uomo del dialogo con il Partito comunista italiano. Dialogo tenuto aperto sul versante del Pci – in particolare negli anni in cui furono segretari Palmiro Togliatti prima, poi Enrico Berlinguer, assai sensibili a questo tema – da Franco Rodano. Successivamente da Tonino Tatò, Carlo Cardia, dal vaticanista dell’«Unità» Alceste Santini e da Massimo De Angelis. E da Paolo Bufalini che, per conto delle Botteghe Oscure, seguì i lavori di revisione del Concordato. Un universo già ben esplorato da Daniela Saresella in Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai nostri giorni (Laterza). Temi che adesso sono oggetto di un’accurata indagine storica di Emma Fattorini con il libro Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza, in uscita il 15 giugno da Morcelliana.
Uno studio impeccabile che si avvale di molte testimonianze di prima mano del cardinale a cui il libro è dedicato. Cardinale che l’autrice ha avuto occasione di frequentare con una certa intensità: «Era quasi una consuetudine», scrive Fattorini, «con don Achille – così voleva essere chiamato il cardinale Silvestrini – quella di registrare dalla sua voce, commenti, bilanci, racconti e prevalentemente ricordi che io trascrivevo e lui rileggeva e correggeva».
Il primo importante personaggio con cui Silvestrini ha un rapporto intenso è Domenico Tardini, destinato ad essere nominato segretario di Stato da Giovanni XXIII nel 1958. Ma la sua personalità si era imposta già da molti anni, nel corso del pontificato di Papa Pacelli. Tardini era stato contrario al partito unico dei cattolici (pensava che le formazioni cattoliche dovessero essere due: una più grande di centrodestra, una «minore» collocata a sinistra). Poi però si piegò ai voleri di Pio XII, di Giovanni Battista Montini e di Alcide De Gasperi. Il suo «tenace anticomunismo… si fondò sull’idea che la Chiesa, e solo essa, fosse e dovesse restare unica depositaria di una natura “totalitaria” financo “totalizzante” della Christianitas». E non dovesse essere «mai costretta ad abbassarsi al livello della società laica e politica». Alla fine degli anni Cinquanta Silvestrini seguì con «vigile consapevolezza» il «nuovo indirizzo della Democrazia cristiana» che scaturiva dai viaggi a Mosca di Giorgio La Pira e Amintore Fanfani. Tardini morì nel luglio 1961 quattordici mesi prima dell’apertura del Vaticano II ed è perciò impossibile anche solo formulare ipotesi su quali riflessi avrebbe avuto su di lui l’esperienza conciliare.
Il giovane Silvestrini era entrato in Segreteria di Stato nel 1953 quando, dopo la morte di Iosif Stalin e la fine della guerra di Corea, si cominciarono ad avvertire i primi timidi segnali di una possibile distensione tra Est e Ovest. Segnali in realtà pressoché impercettibili. Qualcosa di più chiaro si avvertì alla metà degli anni Cinquanta. Ma con onestà intellettuale Silvestrini riconosceva anche decenni dopo di non ricordare «che in quelle circostanze nutrissimo troppe speranze di cambiamenti positivi per la Chiesa, la cui situazione nei Paesi d’oltrecortina rimaneva sempre quella degli anni ’48-’49». Questo per dire che non è da imputare a Pio XII se la distensione tra Chiesa di Roma e Paesi comunisti non iniziò dopo il XX Congresso del Pcus (1956), le assise in cui Nikita Chruscëv aveva denunciato i crimini di Stalin. Tra l’altro in quello stesso 1956 l’Urss stroncò nel sangue la rivoluzione ungherese costringendo – come vedremo tra breve – il cardinale Mindszenty appena liberato dalla prigione comunista a cercare rifugio nell’ambasciata americana.
Ad ostacolare i passaggi tattici di quel dialogo si stagliava la figura del cardinale Jozsef Mindszenty, arcivescovo metropolita di Esztergom e primate d’Ungheria dal 1945. Un gigante nella storia della Chiesa nei Paesi dell’Europa orientale che, ricorda Fattorini, poteva vantare un glorioso passato da martire. Già imprigionato nel 1944 dai nazisti, Mindszenty fu nuovamente rinchiuso in cella dai comunisti. Accadde nel 1949 dopo un processo farsa nel corso del quale il cardinale fu drogato, torturato e condannato all’ergastolo per alto tradimento. Fu poi rimesso in libertà nel 1956 a seguito dell’insurrezione ungherese e fece appena in tempo ad esprimersi a favore del governo liberalizzatore di Imre Nagy. La libertà durò, però, pochi giorni. L’intervento dei carri armati sovietici, che stroncarono la rivolta di Budapest, lo costrinse, come s’è detto, a cercare rifugio nell’ambasciata americana dove rimase per quindici anni. Nel 1971, per intercessione del presidente statunitense Richard Nixon, gli fu consentito di uscire dall’ambasciata e di trasferirsi nella Città del Vaticano.
La posizione di Mindszenty fu, secondo Emma Fattorini, del tutto simile a quella di Pio XII che – come ha raccontato Lucia Ceci in La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento (il Mulino) – di fronte alla repressione sovietica della rivoluzione ungherese era giunto a chiedersi se non fosse lecito e opportuno chiamare i cattolici ad una crociata contro il comunismo. Con Giovanni XXIII e Paolo VI – come vedremo – il vento cambiò. Ma il porporato ungherese, afferma Fattorini, rimase sempre «intransigentemente ostile» a una politica di interlocuzione con i comunisti; «contrarissimo a qualsiasi colloquio» con i governi dell’Est europeo, si riteneva vittima della stessa Ostpolitik, arrivando a protestare con il segretario di Stato vaticano Jean-Marie Villot: «Perché nominate vescovi nei Paesi dell’Est? Sarebbe meglio che non ce ne fossero piuttosto che ci siano quelli che i governi vi permettono di nominare», era il suo aspro rimprovero.
Il clima nuovo di dialogo con i Paesi comunisti per Mindszenty era intollerabile: rimase in Vaticano per pochissimo tempo e subito dopo si trasferì a Vienna. Dove morì nel 1975 non senza essere entrato in urto con Papa Montini al momento in cui questi lo aveva sollevato dall’incarico di metropolita di Esztergom. La sua, scrive la storica, «resta a tutt’oggi una figura difficile da inquadrare». Fu senza dubbio «portavoce di un’idea tradizionale della nazione che incarnò nella piena fedeltà all’Ungheria e alla difesa della religione cattolica». I suoi persecutori lo bollarono come un «nazionalista paranazista». Nel 2012 la Procura generale ungherese, dopo una lunga e accurata istruttoria, ha smontato tutte le accuse mosse dal regime comunista nei confronti del cardinale e nel febbraio 2019 Papa Francesco lo ha dichiarato «venerabile».
Più duttile di Mindszenty fu un’altra personalità della Chiesa che si trovò a vivere in condizioni simili a quelle del cardinale ungherese: l’arcivescovo di Praga Josef Beran. Anche lui fatto prigioniero dai nazisti (e deportato nel campo di concentramento di Dachau, dove rimase per quasi tre anni) fu successivamente rinchiuso in prigione dal regime comunista. Per ben quattordici anni. Nel 1963 fu rimesso in libertà dopo «estenuanti trattative» (Fattorini). Una volta libero, Beran poté raggiungere Roma dove nel 1965 fu fatto cardinale, talché gli fu possibile partecipare all’ultima sessione del Concilio Vaticano II.
E incontriamo a questo punto la figura di Agostino Casaroli, che per conto della Chiesa di Roma condusse le trattative per Beran ed esplorò per primo le strade del dialogo con i comunisti. Per conoscerlo più da vicino sono indispensabili due libri: quello di Roberto Morozzo della Rocca, Tra Est e Ovest. Agostino Casaroli diplomatico vaticano (San Paolo) e quello firmato da lui stesso, Agostino Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti (1963-1989) a cura di Carlo Felice Casula e Giovanni Maria Vian (Einaudi).
La Ostpolitik vaticana fu avviata per volontà di Giovanni XXIII nel giugno del 1963 con una missione di Casaroli a Budapest e a Praga (le città di Mindszenty e di Beran). Nell’avvio di questa strategia, secondo la testimonianza di Silvestrini, «pesò molto la concreta volontà roncalliana di avere a Roma i vescovi dell’Est quali partecipanti del Vaticano II». C’era stato, è vero, qualche segnale di distensione proveniente dall’Urss: gli auguri di Nikita Chruscëv per gli ottant’anni di Papa Roncalli, la visita al pontefice della figlia di Chruscëv (accompagnata da suo marito, Aleksej Adjubei, direttore del quotidiano «Izvestija»), la liberazione del metropolita ucraino Josyp Slipyj dal gulag di Dubravlag. Ma, sempre secondo Silvestrini, per Giovanni XXIII era «prioritario» fare il possibile per garantire la presenza di un numero anche limitato di presuli dell’Europa orientale al Concilio. Nella ricerca di quella presenza «va perciò ricercato, per quanto circoscritto, l’inizio di quella strategia che si sarebbe strutturata in termini più sistematici e avrebbe dato i suoi frutti alla fine degli anni Settanta».
Casaroli in quel momento era a Vienna – nelle vesti di sottosegretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari – per una conferenza diplomatica. Giovanni XXIII intendeva rispondere a un appello (in realtà, una richiesta d’aiuto) fattogli pervenire dall’arcivescovo Josef Beran segregato in un luogo sconosciuto della Cecoslovacchia. Sarebbe stato lo stesso Casaroli a raccontare in seguito della sensazione di «spaesamento» da cui fu assalito fin dall’inizio di quella missione. Con quel suo viaggio a Budapest e a Praga, scrive Emma Fattorini, «ebbe inizio un’avventura diplomatica ai limiti della spy story, vissuta spesso in solitudine e in condizioni materiali precarie, così lontane da immaginifiche fantasie sull’efficienza e sulla ricchezza dei rappresentanti pontifici nel mondo».
Nei ricordi di Silvestrini il dialogo che non avrebbe potuto avere con Mindszenty, Casaroli lo trovò – non senza iniziali difficoltà – con Beran, che si era andato attestando «su una linea possibilista». E con il cardinale polacco Stefan Wyszynski «un vero principe della sua Chiesa, una sorta di sovrano slavo, capace di trattare sia con le locali autorità governative sia direttamente con Mosca, incutendo generale rispetto e timore» (Fattorini). Nel 1971 Casaroli poté recarsi a Mosca, dove però non gli fu concesso di incontrare il suo omologo Andrej Gromyko. Ebbe contatti con cattolici russi da cui «filtrava chiaramente il timore che i nostri sforzi indebolissero ancor più la loro già difficile situazione e aumentassero invece il prestigio del regime».
Ha scritto lo studioso tedesco Hubert Jedin – in Storia della mia vita (Morcelliana) – «il fatto che il Vaticano stringesse con questi Stati totalitari e per principio ostili al Cristianesimo convenzioni che non sarebbero state rispettate» poteva provocare in uno storico della Chiesa «solo una scrollata di capo». Tanto più che la Chiesa concedeva molto e riceveva in cambio «ben poco di concreto». E la situazione induceva talvolta alla nomina di vescovi «ambigui, cooperatori del regime». Ciò che fece di Casaroli in molte occasioni un incompreso.
Fortunatamente qualche anno dopo il contesto cambiò. La tappa fondamentale fu la Conferenza di Helsinki (1975): diversamente da tutti gli scettici, Karol Wojtyla era dell’opinione che «bisognava far pesare ai governi comunisti quell’accordo». «I comunisti», sosteneva Wojtyla, «hanno accettato questi diritti e ora devono applicarli, che ci credano o meno». George Weigel – nel libro La fine e l’inizio. Giovanni Paolo II: la vittoria della libertà, gli ultimi anni, l’eredità (Cantagalli) – ha liquidato Casaroli come «un vecchio burocrate» che fu «d’ostacolo all’azione liberatrice dal comunismo di Giovanni Paolo II». Silvestrini (assimilato da Weigel a Casaroli) ovviamente non concordava con questo giudizio.
Grande è l’ammirazione di Silvestrini nei confronti di Paolo VI, il Papa «con cui ebbe forse più sintonia». Più articolato il giudizio su Giovanni Paolo II. Colpisce un ricordo a proposito dell’intervento che il Pontefice polacco avrebbe tenuto alle Nazioni Unite il 2 ottobre 1979. Sull’aereo che li portava a New York, il Papa fece rileggere a Casaroli il testo di quel discorso. «Il capo della Segreteria di Stato tagliò i passaggi più duri riguardanti la libertà religiosa e i diritti umani nei Paesi comunisti, largamente presenti all’assemblea». Ma Wojtyla «li ripristinò tutti».
Poi nel 1988 Papa Wojtyla nominò Silvestrini cardinale e lo destinò alla Segnatura apostolica («un compito», diceva don Achille, «che proprio non amavo»). «Promoveatur ut amoveatur?», si domandava Silvestrini a proposito di quella «promozione». «Non so», era la sua risposta. Eloquente.