Corriere della Sera, 6 giugno 2023
Intervista a Cesare Prandelli
Cesare Prandelli, come sta ora? Ha smesso di allenare all’improvviso...
«Sto bene. Avevo bisogno di staccare da quella vita frenetica, un po’ schizofrenica. È stato un momento stregato: gli stadi vuoti, una sensazione di solitudine che mi avvolgeva. Era tutto vuoto, tutto rimbombava troppo. Dovevo mettere un muro tra me e quel silenzio. Ora sto molto bene, seguo sempre il calcio, con passione. Ma non ho pensato neanche per un secondo di tornare ad allenare. Basta, fine».
Ma le va di restare, con altri ruoli, nel mondo del calcio?
«Vorrei fare qualcosa ancora ma non l’allenatore. Mi sono reso conto che ero arrivato: generazioni diverse, gestioni diverse, programmi diversi. Ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa proponessi ricevevo parole brutte e stavo sul cavolo a tutti. Sono fuori tempo massimo, probabilmente. Capita».
Mi racconta come si è reso conto di questo disagio? Il momento preciso.
«Era durante un Sampdoria-Fiorentina, a febbraio del 2021, stavamo dominando la partita poi, verso il settantesimo, ha segnato Quagliarella per loro. In quel momento ho provato una spaventosa sensazione di vuoto. Mi è mancato il respiro per dieci secondi. Credo di conoscere il sapore dell’adrenalina ma una esperienza così non l’avevo mai provata. Un vuoto nero, un gorgo di nulla. Forse il troppo amore per la Fiorentina, il desiderio di strafare, di portarla fuori dai guai. Ho parlato con le persone che sanno gestire queste situazioni di stress e mi hanno consigliato di staccare un po’. Mi hanno fatto questo esempio: è come un chirurgo che in sala operatoria interviene tutti i giorni ma arriva un familiare e lui si blocca. Il chirurgo non riuscirà più ad operare. Una sensazione così, di troppo affetto, di troppo amore, di troppa responsabilità mi ha tolto il respiro. Era il segnale».
Il calcio può fare male?
«No, far male no. Fa bene ai bambini che cominciano a giocare, che iniziano a sognare e hanno una grande passione. Ecco io vedo ancora il calcio come la somma di entusiasmo, passione, sogno».
«In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono». Sono le parole che lei ha scritto per motivare la sua decisione.
«Mi sono ammalato di troppo amore, non è retorica. In quegli stadi vuoti in cui ogni cosa era, insieme, amplificata e silenziosa, avevo perso il riscontro diretto con le cose, sembrava una bolla marziana. E poi io voglio troppo bene alla Fiorentina, non posso vederla soffrire e tantomeno sentirmi responsabile di questa sofferenza. Mi sentivo come quando vedi tuo figlio che sta tentando una cosa e vorresti farla tu ma non sei in grado, perché non puoi farla. Questa è la sensazione che ho avuto. Vuoto e impotenza».
Sempre in quella lettera ha scritto: «Questo mondo non fa più per me».
«Sì io mi riferivo alle nuove generazioni. Le nuove generazioni hanno un modo completamente diverso di intendere il rapporto tra singolo e gruppo. Il segreto del calcio è sempre stato quello di formare un gruppo, un gruppo che riesca ad avere lo stesso sentimento e lo stesso obiettivo. Probabilmente le nuove generazioni hanno un modo completamente diverso, non dico che è sbagliato. O ti adatti, ti adegui... Però io ho sempre lavorato basandomi sulle relazioni. Quando mancano l’allenare diventa solo un lavoro da calcolatore, freddo, in cui i dati sono preponderanti rispetto all’aspetto umano».
Quanto le danno fastidio due parole: procuratori e cuffiette?
«Conosco tanti procuratori, persone veramente perbene, capaci di rapportarsi correttamente e di interagire anche con gli allenatori. Loro sono utili, ai ragazzi e a noi. Ma poi c’è anche un altro mondo che schiaccia tutto, non guarda in faccia a nessuno mosso solo da un gigantesco interesse economico. Loro fanno male ai calciatori, alle società, al calcio. Io non ho mai avuto procuratori, li ho presi soltanto quando sono andato in Spagna. Voglio dirle questo: in teoria gli allenatori non dovrebbero avere i procuratori. Si apre altrimenti un grande conflitto di interessi. Per questo ho sempre voluto essere libero».
E le cuffiette dei giocatori nello spogliatoio?
«La cosa imbarazzante è quando tu finisci l’allenamento, entri nello spogliatoio e tutti sono con il telefonino in mano. Non ci sono dieci minuti, un quarto d’ora in cui cerchi di analizzare, non so, la partita che hai perso, la situazione che non hai capito, tutto finisce lì. Magari sono molto più seri e professionisti rispetto a noi, ma hanno una concezione diversa del lavoro che deve essere accettata. È così, oggi».
Mi racconta il momento preciso in cui ha deciso di smettere?
«L’ho capito la domenica mattina, la sera avremmo incontrato il Milan. La settimana prima avevamo giocato e vinto a Benevento. Dopo la partita ho detto “Sono stanco, sono vuoto”, pensavo fosse una situazione passeggera. Ma in settimana non era cambiato nulla, tutte le volte che arrivavo agli allenamenti avevo questo senso di disagio. La società mi è stata vicino, i collaboratori anche. Ero io che stavo male, nel profondo. La domenica mattina abbiamo fatto come sempre un allenamento pre-gara. Al mattino, in palestra, c’è stata una situazione, nulla di che, una carenza di concentrazione. Di solito agivo in un certo modo e la superavo. Quel giorno ho fatto due passi e ho sentito ancora quel disagio, sempre più forte. Mi sono riseduto e ho detto basta, è la mia ultima partita in panchina».
Ilicic, Buffon, Sacchi. La depressione nel calcio ha fatto irruzione. È una reazione alla pressione?
«Secondo me ognuno porta la propria testimonianza. Nessuna situazione è uguale all’altra. Io non ho avuto la depressione, non c’era nulla di universale, era un malessere legato al mio lavoro. Risolto quello sono tornato sereno e positivo come sempre».
Chi, dei calciatori e dei suoi colleghi le è stato più vicino quando ha pubblicato quella lettera?
«Tantissimi giocatori che ho avuto alla Fiorentina per cinque anni dal 2005 al 2010. Colleghi tanti, ma devo dire quello che mi ha sorpreso per la straordinaria umanità, è stato Antonio Conte. Poi anche Gasperini, Stefano Pioli».
Suo padre è morto quando lei era piccolo.
«Avevo quindici, sedici anni. Quando tanti mi trovano una persona solida, equilibrata, penso sempre che da ragazzo ero uno scapestrato, un teppistello. Ma quando ci siamo trovati a casa con le due mie sorelline e la mamma, senza papà, mi sono improvvisamente trovato ad essere responsabile di qualcuno. Quando sei responsabile di un gruppo di persone o solo dei tuoi familiari secondo me acquisisci delle capacità soprattutto di ascolto. Ormai la gente non ascolta più, sente distrattamente le parole degli altri e capisci, in una conversazione, che magari dicono, spesso di sé stessi, ma non comunicano».
C’è stato un altro momento nel quale ha privilegiato la vita rispetto al calcio, ed è stato quando è morta sua moglie.
«Mi sono sentito un privilegiato perché ho potuto scegliere. Tante persone hanno vissuto il mio stesso dramma e non avevano la stessa possibilità, dovevano continuare a lavorare dalla mattina alla sera. Avevamo fatto un patto, con Manuela: se avesse dovuto fare altre cure, più invasive, non l’avrei lasciata da sola. Ho fatto una cosa normale, ma forse oggi la normalità è un’eccezione».
Da allenatore della nazionale lei ha vissuto due momenti: uno straordinario, gli Europei del 2012, e uno più difficile, i Mondiali del 2014.
«Me li sogno ancora, però c’è da dire che è stata l’ultima volta che l’Italia si è qualificata ai Mondiali. Non sono una persona polemica, assolutamente, lo dico perché è così. In quei quattro anni abbiamo cercato di capire dove poteva andare il mondo Federazione. Allora abbiamo cercato di fare delle proposte, ma abbiamo trovato molti ostacoli. Ci sono tante parrocchie che condizionano la scelta del presidente. I dati dicono che, fino ai vent’anni, noi siamo molto competitivi a livello mondiale, molto. E poi no, c’è un vuoto e volevamo capire il perché. Alla fine torni sempre a come gestisci i bambini che iniziano a giocare a calcio, inizia tutto da lì. Se l’allenatore di un bambino di otto, nove anni, dieci anni, nota una gestualità e non capisce che è una gestualità da talento e cerca di immagazzinarlo in un sistema di gioco molto rigido, è normale che i talenti non escano. Ho visto delle partitine di bambini di otto, nove anni con il mio nipotino. Non vado più perché vorrei veramente parlare con il presidente federale e dirgli: “Ma voi sapete come stanno gestendo il calcio dei bambini?”. Ci vogliono gli istruttori, invece sono tutti allenatori, i bambini di otto anni sono tutti impostati, passaggio avanti, passaggio dietro, non puoi fare più di due tocchi, quello avanti non può dribblare. Ma come non può dribblare? Se un bambino dribblava tutti, c’era l’allenatore che gli urlava di passare la palla. Bisogna ricominciare ad allenare il talento, non ad insegnare le tattiche».
Cosa le manca del calcio?
«Da giocatore mi manca l’allegria del gioco, il divertimento di andare al campo, fare le partite e sfidare gli altri, senza nessun tipo di responsabilità se non quella di far parte di un gruppo. Come allenatore mi mancano certi momenti in cui avverti che i giocatori ti ascoltano, ti seguono, stanno diventando una comunità, allegra e coesa. In quei momenti mi sentivo in pace con me stesso, mi sentivo molto felice di fare quel lavoro».