Corriere della Sera, 6 giugno 2023
Quella rompiscatole di Giulia Maria Crespi
Se le coincidenze hanno un senso, le sarebbe piaciuto accostare i suoi cento anni alla giornata mondiale dell’Ambiente, alle battaglie per i mari e i fiumi puliti, alla difesa della terra drogata di pesticidi, ai milioni di giovani che in tutto il mondo chiedono di salvare il Pianeta. Li avrebbe compiuti oggi, Giulia Maria Crespi, e anche se il futuro è meno luminoso di come immaginava la sua impetuosità sognante si sarebbe volentieri esposta, una volta ancora, in difesa di quella Natura presa a calci dallo sviluppo insostenibile che le ricordava le parole di Pasolini, le lucciole scomparse e i fiori che ispirano mille pensieri: «Guardate d’inverno i fiori del nocciolo, nascono nel freddo per annunciare una speranza…».
Fino a 97 anni Giulia Maria Crespi ha incarnato una speranza e un sogno, spesso controvento: l’idea di cambiare il mondo depredato e saccheggiato con un altro più bello e più giusto, di salvare dal peggio quel che di buono ci è stato lasciato e di seminare per altri qualcosa che li aiuti a vivere meglio. L’ha fatto con il Fai, il Fondo italiano per l’ambiente, un argine alzato in difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, un miracolo riuscito grazie al coraggio e alla follia visionaria condivisa con Renato Bazzoni ed Elena Croce.
Le buone idee
«Cambiare il mondo era il suo motore e la sua condanna. Ha sempre ritenuto che i suoi diritti fossero i diritti di tutti, il diritto di respirare bene, di vedere un luogo pulito, di rispettare il paesaggio, di godere della natura, della bellezza e dell’educazione», dice Marco Magnifico, che per 35 anni è stato al suo fianco, prima direttore e oggi presidente del Fai. «La lezione del Fai e di Giulia Maria è che le idee buone vanno difese senza porsi il problema degli ostacoli. Lei sognava sempre in grande, un po’ di più di quello che era realizzabile. Ma questo serviva a realizzare almeno una parte del suo sogno».
Destino di comando, quello di Giulia Maria Crespi. Con un filo rosso che lega la storia di una famiglia ricca e famosa all’impegno civile, la borghesia lombarda alla filantropia, la proprietà del Corriere della Sera all’ambientalismo e alla cultura. Era una zarina, secondo Indro Montanelli, il giornalista amato e poi licenziato quando toccava a lei scegliere i direttori. Una fanciullina negli entusiasmi, per Giovanni Spadolini, che poi provò la durezza d’acciaio delle sue posizioni. Un’innovatrice, secondo Piero Ottone, chiamato a svecchiare il giornale e a cambiarne la linea, con la nouvelle vague degli scrittori emergenti, Pasolini, Calvino, Citati, Eco, Cederna. Una che esercitava il potere del comando, fino all’ultimo. Anche con i direttori del Corriere che non aveva scelto lei. Presentandosi così: «Ascoltate per favore questa vostra rompipalle… Fatelo per una buona causa».
La corte e il salotto
Nasce tra gli anni Sessanta e Settanta il suo impegno sulle questioni ambientali e paesaggistiche. «Decisi che il Corriere non poteva ignorare certi temi di interesse pubblico». Campagne in difesa dei beni culturali. Contro i vandali dell’arte. O per salvare Venezia dal degrado e dalle navi da crociera. Difficile dirle dei no. Era interventista e assolutista. «Poteva essere addirittura spietata, come si addice a una monarca chiamata a decidere. E infatti nella vita ha avuto molti nemici. Ha dato molte sberle e altre ne ha ricevute. Ma è sempre andata avanti per la sua strada», ricorda Magnifico. Come una regina aveva una corte e un salotto. In Corso Venezia, tra i piatti di Vermeil, le porcellane di Meissen e i Canaletto, gli ammessi l’adoravano (e gli esclusi la odiavano). Raccontava lei stessa: «A Milano misero in giro la voce che fossi diventata l’amante di Capanna». Fake news. Dagli anni Ottanta, dopo la vendita del Corriere, sposa una battaglia su due fronti: salvaguardia del patrimonio artistico con il Fai e difesa dell’ambiente dal cemento e dalla speculazione. «La sua visione del futuro era abbastanza drammatica: non ci sarà più acqua da bere, moriranno tutte le api… Era eccessiva, ma lo faceva per stimolare. Per obbligarci a reagire».
Il suo luogo del cuore
Alla Zelata tra i barbi del Ticino e le zanzare (con insetticida proibito, l’agricoltura biodinamica lo vieta), aveva un’altra Versailles. Era il suo luogo del cuore. «Un giorno mi disse, basta con le ville del Fai, dobbiamo occuparci di agricoltura, di mandrie e di alpeggi. Io da storico dell’arte mai avrei pensato di occuparmi anche di questo. Ma lei cercava nuove sfide. Aveva capito che la madre di tutte le battaglie è il riscaldamento climatico, ma la transizione ecologica non può essere fatta sulla pelle del paesaggio italiano....». Giulia Maria Crespi ha vissuto solo il primo tempo della pandemia. «Questo Covid è un brutale altolà», mi disse. «Quel che abbiamo di colpo potrebbe non esserci più». Pensava ai giovani, a cosa gli lascerà il futuro. Poi le venne in mente il fiore del nocciolo: la speranza che non muore.