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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Su "Oro puro" di Fabio Genovesi (Mondadori)

Fabio Genovesi ha scritto un libro poetico e poderoso (438 pagine), uno di quelli, rarissimi, il cui finale, da solo, vale la lettura delle pagine che lo precedono. E apre un mondo nuovo. Siamo nel 1492, a Palos, un porto paludoso della Spagna meridionale, e, se già pensate di intuirne il motivo, non vi sbagliate di molto. Oro puro (Mondadori, in libreria dal 6 giugno) è un romanzo storico atipico, collocato in uno di quei momenti fondamentali della cronologia occidentale, di quelli che abbiamo mandato tutti a memoria, dove la storia fa un prima e un dopo: la nascita di Gesù, la Rivoluzione Francese e quando Cristoforo Colombo, per l’appunto, scopre l’America.

A raccontarci come inizia l’Occidente, dopo un doppio esergo che annoda tra loro jazz e poesia curda, è Nuno, un ragazzino mezzo spagnolo e mezzo portoghese (che poi scoprirà di essere né uno né l’altro) figlio di una prostituta ebrea che tutti chiamano la Vedova, o la Gallega. Cresce in una casetta dove, col fare del buio compaiono marinai, commercianti e notabili della città, mentre di giorno lei esce in strada a scrivere lettere per chi non sa scrivere, ma ha cose da dire, giuramenti da fare, promesse da lanciare in mare o anche solo aspetta che qualcuno gli legga le risposte che ha ricevuto. È la Vedova, vestita di nero per non essere importunata, che insegna a Nuno a leggere e scrivere, e così gli consegna un talento speciale di cui lui si servirà, non appena comprende che la scrittura è vivere, sentire, trovare, prendere e dare. E, soprattutto, che è roba di cuore, di come batte e ti fa respirare. E se la mamma di Nuno è sempre vestita di nero, la zia Blanca è il suo esatto contrario, e se una se ne va troppo presto, l’altra lo aspetterà, al momento del ritorno a casa. Entrambe quando Nuno è giovanissimo portano sull’abito il fiocchetto giallo degli ebrei, come hanno ordinato loro di fare i Cattolicissimi Re e Regina di Spagna, con l’intercessione di Torquemada: è l’anno in cui agli ebrei è dato tempo fino a luglio per convertirsi, lasciare la Spagna o rischiare la vita.

Nuno, a modo suo, sceglie di andarsene, ma sceglie la via del mare: ha sedici anni e mezzo ed è triste, di una tristezza ben diversa da quella che si prova quando devi dire addio alle persone che ami. La sua tristezza è quella di chi, girandosi indietro a dare l’ultima occhiata a casa sua, vede che non c’è nessuno da salutare. Il mare è blu, enorme e sconosciuto. E sul mare c’è un’altra Gallega, una nave che ha lo stesso nome di sua madre (e che, non sfugga l’ironia, è sia il soprannome che dalle parti di Siviglia si dà alle prostitute, sia il nomignolo della Santa María). Ma è così: la nave è una persona, ci dice Nuno. E come tale devi imparare ad avere a che fare con lei.

È Alonso a tirarlo a bordo con un espediente. È uno dei marinai di bordo, l’ultimo degli ultimi, che però ha bisogno di uno ancora più ultimo di lui. Di’ che sei amico di Juan, lo consiglia, un grande amico di Juan, hai capito? E Nuno, non subito, ma capisce, anche se non sa chi sia Juan, né cosa sia un mozzo, o cosa significhi andar per mare. Lo scoprirà per primo il suo stomaco. Poi, scoprirà tutto il resto. Dove vanno?, chiede. In che direzione? Andiamo a morire, gli dice il suo amico, che è la frase usata dai marinai per dire: verso la gloria! E a bordo, parlando una lingua di oggi, sapida come una serie di Netflix, Nuno conosce non solo Alonso, ma Domenico, che balbetta, lo Scimmione, e il Biondo, che custodisce segreti insospettabili, e via via gli altri uomini di bordo, gli ufficiali, i capitani e, infine, l’Ammiraglio. E per ognuno di loro ha un pensiero, un’intuizione, un’esclamazione. Soprattutto, da semplice mozzo, si rivelerà fondamentale il suo talento per le lettere e il fatto che può leggere una carta nautica. È lui che dopo poche settimane dalla partenza grida per primo «Terra! Terra!», ma quella che avvista non è il Nuovo Mondo, sono solo le Canarie. E quando le tre caravelle si fermano per fare l’ultimo rifornimento Nuno capisce che da parte di padre deve essere per metà un Guancio, un abitante delle isole, e forse è per questo che sente il richiamo del mare. Ed è a questo punto che il romanzo mischia abilmente le carte: partono, viaggiano, arrivano, esplorano.

Ma a Nuno non interessa la grande storia, interessano le storie delle persone, degli uomini di bordo, i loro legami e i loro sentimenti, interessa sapere perché la zia Blanca l’avesse messo così in guardia dall’innamorarsi. Ma quando se lo chiede, è già troppo tardi. Ciò che palpita ed è interessante nell’attraversamento e nello sbarco non sono tanto i fatti o i personaggi della storia, ma lo sguardo che Nuno ha per ognuno di essi. Come nel momento in cui, incredulo, osserva lo sbarco degli Spagnoli davanti alla giungla nel Nuovo Mondo, forata dagli occhi dei nativi nascosti nell’ombra, umida e cupa. In quel mattino fuori dal mondo e dal tempo, ci dice, che avrebbe cambiato per sempre sia il mondo che il tempo, tra terre e mari, piante e animali, pesci e uccelli e occhi che non si erano visti né sognati mai, un drappello di signori eleganti — almeno secondo gli standard spagnoli — in modo molto scrupoloso, si mette a leggere a voce alta e a sottoscrivere un atto notarile. È l’atto con cui prendono possesso di un intero mondo. E in questo sommo gesto burocratico c’è lo splendore assurdo della scrittura e del documento, della mappa che determina il mondo, e non il suo contrario. C’è l’infinita tracotanza europea di chi sente Dio senza alcun dubbio dalla sua parte. Ma, in quella foresta fitta c’è anche, su Nuno, il primo sguardo di una fanciulla, che da lì a poco diventerà Lei, Lei, la donna assoluta, come quella vagheggiata da Henry Rider Haggard nel folto di un altro romanzo, in un’altra giungla inestricabile.

È qui che comincia a brillare il senso pieno del romanzo, e il suo titolo, Oro puro. Dove si trova, l’oro puro? Forse, ci dice Nuno, nelle pagine che seguono, non nelle grandi o nelle piccole azioni, nemmeno negli oggetti o nei possedimenti. Non è una città, una miniera, non è nemmeno quello delle persone. È, invece, il tempo che hai a disposizione con loro: anche solo tre anni, tre soli anni. Quanto basta per caricare la vita di tutti i significati necessari. E scrivere, con l’Ammiraglio, una certa lettera, che poi però non è mai partita, per errore, o sfortuna, o paura, o tutte e tre queste cose insieme. E che avrebbe potuto cambiare ogni cosa.