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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Intervista ad Edwige Fenech

Ride, gioca, si stupisce, ride ancora, poi ogni tanto “arrota” la erre, si ripete la domanda e resta silente come a dire: perché lo chiede proprio a me?
A volte sembra la lontana cugina di se stessa, una cugina affettuosa, complice, che non vede da decenni.
Perché oggi Edwige Fenech appare più una donna consapevole dell’incoscienza generata, ma senza una partecipazione diretta, emotiva, solo razionale che scova il divertimento – anche – nel contrapporre l’idea ai fatti: “Ho 74 anni, da tempo vivo in Portogallo ed esco dal mio guscio solo se ne vale la pena”. Questa volta a stanarla è stato Pupi Avati per il suo ultimo film, La Quattordicesima Domenica del tempo ordinario e poi l’invito delle Giornate della Luce a Spilimbergo.
Ben tornata.
Grazie.
Ha rischiato di diventare un’altra Mina.
Non ci avevo mai pensato, ma l’adoro, quindi mi sta molto bene questo paragone; (ci pensa) però lei ha continuato a cantare, io sono proprio sparita.
In questi anni a cosa si è dedicata?
Non mi sono annoiata; (pausa, cambia tono) in realtà un po’ sì, però anche mio figlio è venuto a vivere in Portogallo, è nato un altro nipote, ho ancora mamma con me, ha 95 anni, e la mia gatta di 13.
Tutto al femminile.
Poi ci sono gli amici, in realtà non sono molti, ma buoni.
Pochi amici per scelta o attitudine?
Sono abbastanza introversa e dopo tanti anni e alcune fregature non mi fido tanto; prima ero più aperta, avevo fiducia, condividevo; (pausa) comunque estroversa non lo sono mai stata.
Nelle foto spesso è seria.
Davvero? Eppure nella vita sorrido abbastanza; sono capricorno, un segno d’inverno, è stato lo spettacolo ad avermi aperto alla vita, ma allo stesso tempo ero e sono una solitaria e questo non è un positivo.
Perché?
Sono costretta a rimproverarmi: “Dai, esci, vedi qualcuno”.
Altrimenti?
Ho un temperamento quasi da reclusa; pure da giovane uscivo pochissimo.
Non era mondana?
Direi di no, anche se vivevo in una società con forti tratti mondani e a volte ne traevo del piacere; la questione è sempre la stessa: anche da ragazza non ero tanto socievole da uscire, da frequentare la vita notturna; anzi, la vita notturna non mi piaceva.
Chissà gli inviti
Ogni tanto cedevo; (pausa) il problema non era solo la mondanità, ma anche il teatro: quando sono andata in tournée per uno spettacolo di Patroni Griffi, esperienza professionale magnifica, ho sofferto tantissimo per i continui spostamenti. Io volevo stare a casa, nel mio guscio, nella mia conchiglia.
Di conseguenza.
Ho rinunciato.
A cosa?
Finita la tournée me ne hanno proposta un’altra: non ho accettato; (ride) non potevo cenare all’una di notte, andare a letto alle tre e svegliarmi a mezzogiorno.
Per Gabriele Lavia, suo partner nel film di Avati, il dopo teatro è il massimo.
È un uomo molto spiritoso. E che attore; la prima volta che ci siamo incontrati non potevo credere alla sua età, perché è bello.
Con un approccio vitale.
È vero, è un ragazzo; è piacevole recitare così, come una coppia di vecchietti.
Vecchietti?
Ho 74 anni, non sono una fanciulla.
Li porta bene.
Provo a mantenermi.
Naturale?
Mai contaminata.
Cinema e teatro le sono serviti per la timidezza?
Tantissimo, ma più del cinema la televisione e il teatro perché sono mestieri con il pubblico coinvolto in presa diretta; (cambia tono, come se parlasse di un’altra) avevo veramente paura, soffrivo e per lo stress, durante la tournée, ho perso cinque chili.
Cosa temeva?
(Ride) Le poltronissime: costavano proprio tanto, un botto, e ogni volta che mi dicevano la cifra soffrivo ancora di più perché la gente voleva vedermi da vicino; (tono soffice) e pensare che normalmente gli attori desiderano il pubblico attaccato.
I suoi colleghi erano gelosi di lei?
Quelli della tournée? Macché, tutti professionisti straordinari, da Bentivoglio a Wertmuller: viaggiavamo con la mia macchina, una Renault Espace. Spesso guidavo io.
Nella sua ultima intervista, Gianni Cavina, l’ha definita eccezionale come donna e amica.
Oddio. Con lui avevamo un bel rapporto, persona dolcissima, protettiva e poi era un attore fantastico, uno di quelli a cui magari chiedevo un consiglio o sapeva darmelo.
A Gianni Boncompagni chiedeva consigli?
Che tipo assurdo. Era il regista di Domenica In, ma per lui le prove non erano necessarie. Io insistevo. “Non servono a nulla”. “Come a nulla?”. “Nulla”. Così arriviamo alla vigilia del debutto, tutti convocati, proviamo le posizioni, grossomodo affrontiamo i temi della puntata e poi ci saluta: “Buona domenica”. “Gianni ma non ho la scaletta”. “Non ti preoccupare, va bene così”.
Lei distrutta
Lo pregavo! Eppure siamo andati d’amore e d’accordo, desiderava la naturalezza.
Boncompagni era celebre per i suoi scherzi feroci…
Con me mai, forse, anche in quel caso, ero troppo seria.
Aveva intimorito pure Boncompagni.
Questo non credo, era impossibile.
In questi anni si è sentita sottovalutata?
Non lo so, forse è accaduto, ma alla fine credo che ognuno di noi ha il suo destino: questo è stato il mio e ringrazio sempre chi c’è lassù, perché con me è stato molto generoso; da parte mia ho solo cercato di restare una persona perbene.
Ci sarà un “però”…
Che sono ancora entusiasta quando mi vengono proposti film come quello di Pupi Avati, ma senza particolare trasporto: se arrivano bene, altrimenti sto con la mia famiglia; alla mia età non mi posso permettere di accettare un lavoro che vanifichi la mia storia.
Non sembra una persona arresa al solo destino.
Questo no, mai. Ho lavorato tanto, per anni in continuazione.
Qual è il suo talento?
Credo di saper leggere bene le sceneggiature.
È stata una produttrice.
Orgogliosa dei miei lavori e non è stato semplice.
Da che punto di vista?
All’epoca come donna, attrice, considerata solo per i film cosiddetti di Serie B, era facile ottenere una pedata nel sedere e una porta in faccia; io ho perseverato, chiedevo che leggessero i progetti, invece passavano i mesi, gli anni, tutti zitti.
Per questo ha smesso?
Soprattutto per questo; neanche i successi ottenuti mi avevano dato accesso a riscontri e risposte e mi ero scocciata di regalare testate alle porte: a quella gente interessa lavorare solo con un gruppo ristretto di persone e io non ne ero parte.
A proposito di testate, lo sapeva bene Tomas Milian…
(Cambia tono, ride forte) Povero Tomas, come era ridotto…
Cioè?
Con 40 gradi all’ombra del lenzuolo, Sergio Martino (il regista) lo aveva conciato con una parrucca, degli occhiali allucinanti e dei denti improbabili; però quanto era bravo, quanto era serio, ghettizzato per via del Monnezza.
Ma la testata?
Tomas interpretava un barbiere sopraffatto dal desiderio che si lasciava cadere sul lavandino battendo la testa. Il regista mise la gommapiuma sul punto di impatto. Lui rifiutò: ‘Vengo dall’Actors Studio, non recito, vivo!’. Concluse la giornata con la testa tumefatta.
Quali attori l’hanno stupita maggiormente?
Ho lavorato con tanti professionisti fantastici come Lino (Banfi) e Renato (Pozzetto),: attori in grado di passare dalla commedia al dramma; poi penso a Sordi, Tognazzi, Gassman e Manfredi; (pausa) e ho avuto la fortuna di condividere il set con Monica Vitti, il mio mito.
E lei?
Davanti a Monica avevo le gambe che tremavano.
Lo ha confessato?
Non ce n’era bisogno, il mio stato di ansia era evidente; anche con Sordi e Tognazzi ero sopraffatta dall’emozione.
Monica Vitti sosteneva di non si sentirsi bella.
Non ne abbiamo mai parlato, però non ho difficoltà a capirla: pure per me era lo stesso.
Non si è mai piaciuta?
No, con mia mamma che tentava di tirarmi su di morale; se una non è una montata e ha il senso della realtà, è normale guardarsi allo specchio e non esaltarsi.
Addirittura.
Per me tutte erano più belle e più brave.
Esagerata.
Lo so, quasi nessuno mi crede, ma è così.
Oggi come si giudica?
Nel film di Pupi mi considero giustissima per la parte: ho 74 anni e non mi devo considerare bella; (pausa) per il ruolo mi sono preparata, ho corso tantissimo, ho perso acqua in modo da scavare il viso. E poi Pupi ha voluto i capelli neri e un terribile colore grigio sul volto; ma ripeto: non devo trovarmi bella, ma giusta.
Ha mai temuto un regista?
Direi di no.
Neanche Dino Risi?
Lo adoravo e per anni abbiamo abitato sullo stesso pianerottolo; in Sono fotogenico, all’inizio delle riprese non aveva un gran rapporto con Pozzetto, poi è stato un incanto; (pausa) con Renato sono veramente amica.
Pozzetto ha confessato che con lei non sempre riusciva a stare calmo?
In che senso?
Che in alcune scene intime non riusciva a mantenere il giusto distacco.
(Ride, ma tanto) Si riferisce a La patata bollente? (Ride ancora) Va bene, però lì per lì non me lo ha fatto capire; quanto gli voglio bene.
Tognazzi ha cucinato per lei?
Andavo spesso a trovare la famiglia Tognazzi, ho visto crescere i figli, con Gianmarco sono stata negli Stati Uniti per girare Vacanze in America.
In quel film interpretava sua madre.
Il bello è che con noi c’era pure la sua vera mamma, Franca Bettoja e per lui è stato un viaggio da incubo: era minorenne e non poteva entrare in nessuno locale dove si serviva dell’alcool.
Tognazzi come cucinava?
Molto bene.
È la prima a sostenerlo.
All’epoca tentava esperimenti che oggi sarebbero normali, allora no.
Torniamo alla sua ansia da palco: nel 1991 come ha retto Sanremo?
Ho finito il Festival con 39 e mezzo di febbre; non avevo più voce, i miei genitori sono venuti a recuperarmi e mi hanno portato via come una poveraccia.
Bel quadro…
Non riuscivo a muovermi: come fossi un fumetto, mi hanno piazzato a letto con il termometro in bocca.
Esperienza tosta.
Un incubo! Quel Sanremo doveva saltare per la guerra nel Golfo; solo una settimana prima hanno cambiato idea e ci siamo lanciati senza preparazione; alla fine più o meno è andata.
Ha un baule con dentro la sua storia artistica?
No, assolutamente.
E tra cinquant’anni cosa racconteranno di Edwige Fenech?
Ce ne sarà bisogno?
Chi è lei?
Una donna semplice.