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 2023  giugno 04 Domenica calendario

Roma e la guerra della monnezza (persa)

La guerra contro la spazzatura nella città di Roma risultava già perduta all’epoca del Papa Re, intorno al Settecento, quando vescovi e principi del sangue fecero affiggere in mezza città le lapidi della disperazione minacciando «nerbate, ceppi e giri de rota» a chi lasciava in giro rifiuti. Non servì. Le targhe in marmo sono comunque rimaste, assai fotografate dai turisti, a testimonianza dell’impotenza assoluta della pubblica autorità persino quando poteva frustare i disobbedienti o rinchiuderli nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Ora che alcuni volti noti del cinema e della tv hanno riacceso il dibattito pubblicando foto di cestelli straboccanti (Alessandro Gassmann), di cassonetti sommersi dalle buste (Elena Santarelli), incalzando il sindaco (Claudia Gerini: «ma perché ‘sta città non si può pulire?») o addirittura chiedendo l’intervento dell’esercito (Gaia Tortora), prevale una certa ironia. In tanti hanno titolato «rivolta vip», come se la spazzatura fosse il problema di una casta di privilegiati restii a sopportare il disagio del cittadino medio. E tuttavia bisognerebbe dare atto a questi famosi di essere gli ultimi giapponesi di un ideale sconfitto, la legione perduta della causa del decoro urbano che gli altri, i romani non-famosi, i romani qualunque, e ovviamente i romani che amministrano le cose, hanno abbandonato da un pezzo, per avvilimento o per ignavia.
Ci fu un tempo in cui la guerra contro la spazzatura fu guerra di popolo, e il blog «Roma Fa Schifo» macinava duecento, trecentomila visualizzazioni al giorno sotto i post dei maiali grufolanti a Boccea o degli addetti Ama che li nutrivano sversando sul marciapiede avanzi di spaghetti. Ci fu un tempo in cui le periferie si ribellarono, e dopo averle provate tutte a Tor Bella Monaca e a Borgata Finocchio la gente diede fuoco ai cassonetti, presto imitata da quelli del Casilino, del Tuscolano, di Monte Mario: 80 incendi in una settimana. Ci fu un tempo in cui pure i ricchi e potenti dell’Olgiata si associarono alla plebe organizzando una class action contro il Campidoglio. Ci fu un tempo in cui l’eco del disastro dei rifiuti romani arrivò fino alla Commissione Europea che se ne impicciò e minacciò multe. Beh, quel tempo è finito. La Roma di oggi, la Roma che le ha provate tutte – destra sinistra, grillismo e antigrillismo – ha alzato bandiera bianca. Non ci crede più. Gassmann e gli altri sono voci residue nel deserto, un deserto arredato di detriti e scarti urbani di ogni natura.
«Roma e la monnezza» è una grande saga secolare, una fiction in diecimila puntate che alla fine è diventata noiosa pure per chi paga salato per guardarla (tariffa media Tari: 314 euro l’anno). È impossibile farne il riassunto se non attraverso i momenti What The Fuck, che sono tanti. In nove anni, nove cambi dei vertici Ama, la società che gestisce lo smaltimento capitolino. Un contratto con Amsterdam che secondo informazioni attendibili prevede l’esportazione nei Paesi Bassi di 900 tonnellate di spazzatura a settimana (per 200 euro a tonnellata, 180mila euro ogni sette giorni) che altrimenti non sapremmo dove ammucchiare. 2.400 netturbini idonei al lavoro di svuotare, spazzare, pulire e 1.560 (quasi il quaranta per cento del totale) dichiarati non idonei o poco idonei e perciò messi al riparo dalle fatiche del mestiere dietro le scrivanie o nei parchi mezzi. Ottantamila cassonetti da sversare ogni giorno, cioè 33 per ogni netturbino in attività (senza contare i 30mila bidoncini). Manco Superman. Tutto il resto è show, favola, Esopo minore sulle avventure metropolitane di topi, gabbiani, cinghiali, o addirittura epica politica: fu la spazzatura di Roma la pistola di Sarajevo che detronizzò Mario Draghi ad opera del Movimento Cinque Stelle, ostile al progetto del termovalorizzatore inserito nel Decreto Aiuti.
Ma sono i racconti minori, gli spin-off collaterali, quelli che spiegano meglio la faccenda. L’ultimo, legato alla protesta fotografica di Gassmann, ha per protagonisti i cestini dei rifiuti installati in centro. Sono a forma di anfora, con un collo stretto che impedisce ai cartocci unti di pizza e ai supplì sbocconcellati di scivolare in fondo: una festa per la fauna cittadina. Il presidente Ama Daniele Pace concorda con la lamentela dell’attore e precisa: li hanno scelti quelli di prima, noi vogliamo cambiarli. Quelli di prima erano quelli di Virginia Raggi che ci misero quattro anni («È stato un lavoro complesso») per sostituire i manufatti di ancora prima, gli orrendi trespoli con buste trasparenti installati durante una qualche emergenza terrorismo e mai rimossi. In pratica: sono dieci anni, forse quindici, che si è alla ricerca di un modello decente di cestino triangolando tra Comune, azienda dei rifiuti, Sovrintendenza, Questura. Come dar torto a chi dice «non possiamo farcela»?
Nerbate, ceppi e giri de rota, la loro traduzione attuale in forma di licenziamenti e multe, le minacce scolpite nel marmo dai nobili romani, la loro versione 2.0 nei tweet dei famosi residenti in centro. A Roma tutto si mischia, tutto è déjà-vu, tutto scoraggia e indica la via della rassegnazione. Il genius loci della città dei marmi e delle fontane, del Colosseo e degli acquedotti, si è arreso ai sacchetti dell’indifferenziata e ai materassi sul marciapiede. Prima o poi si stuferanno pure gli ultimi legionari della decenza, e buonanotte. —