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 2023  giugno 04 Domenica calendario

Intervista a Giuseppe De Rita

«Non viviamo una crisi economica, ma sociale». Giuseppe De Rita, 90 anni, sociologo fondatore del Censis, interviene oggi al Festival internazionale dell’Economia di Torino.
L’economia europea non è precipitata in recessione, come si temeva, ma l’inflazione sta penalizzando i più deboli. È così?
«Sì e lo è sempre stato, perché l’aumento dei prezzi colpisce chi consuma una quota maggiore del proprio reddito per acquistare beni di prima necessità, come alimentari, energia e trasporti. Questi ultimi sono tra i più colpiti dall’inflazione, ma con un po’ di pazienza tutto si redistribuirà».
Nel mentre crescono le diseguaglianze?
«Sì, ma è anche vero che uno sviluppo come quello che viviamo, per quanto timido, risulta sempre squilibrato. Lievitano i prezzi e pure le esportazioni. La verità è che nonostante la pandemia, la guerra e la disoccupazione la crisi non c’è stata e non c’è, non a caso l’occupazione è ai massimi storici».
E i sei milioni di poveri in costante aumento?
«Quelli che vanno alla Caritas sono molti di meno. È difficile contare i poveri in Italia, ma davvero in pochi rinunciano alle feste, alle vacanze, a bar e ristoranti».
Sembra Berlusconi quando diceva che i ristoranti sono pieni… Come si concilia questo aspetto con la crescita delle diseguaglianze?
«In un Paese in pieno sviluppo i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. È un mito buonista pensare che la crescita non porti diseguaglianze».
Ma una volta la società era più coesa o no?
«La società ha sempre tenuto e ancora tiene. È nelle sue fibre sottili che ci sono problemi, nei femminicidi, nella violenza giovanile: dove non conta il denaro, ma l’esclusione e la disumanità».
La crisi è più sociale che economica?
«In questa fase sì. Nell’ultimo rapporto Censis si fotografa una crisi dei rapporti elementari, da moglie a marito, da amante ad amante, da amico ad amico. Si è persa la carica di andare avanti e di crescere, e l’adrenalina di ciascuno di noi finisce nel rancore. Questo sentimento colpisce chi ci sta vicino, non si sfoga in piazza dicendo “morte a Meloni"».
L’Italia cresce anche se gli italiani non ci credono?
«Sì, da una decina d’anni sono cresciute le grandi filiere, il made in Italy, l’alimentare, la meccanica, il turismo, le piccole imprese che sono la spina dorsale del Paese».
Manca un senso d’impresa collettivo?
«Manca un traguardo. La società va avanti per inerzia, si barcamena senza un’idea di cosa sarà. Per questo c’è paura del futuro. Peccato perché quando l’Italia ha avuto un traguardo ce l’ha sempre fatta. Ora ci si accontenta che la barca vada».
Il governo non lo mostra un traguardo?
«Potrei dire che ce l’ha per se stesso, vuole affermarsi e consolidarsi. Ma è un tema suo, non del Paese».
Alla premier Meloni manca un’idea di futuro?
«Probabilmente l’idea che aveva di un futuro nazionalista e sovranista ha dovuto fare i conti con l’Europa, l’Ucraina, la Cina, ed è rimasto solo il suo traguardo personale».
Il Pnrr è un traguardo?
«Sì, ma non basta a far sognare l’Italia. Non si può dire al mio barista che il digitale o l’ecologia siano il futuro. Serve un piano tangibile e va spiegato. Se la gente lo capisce bene, se lo capiscono solo quattro tecnocrati a Bruxelles non funziona. Il Pnrr è una grande opportunità, ma va calato nel Paese».
Esiste un rischio autoritarismo?
«No, e la Corte dei conti che ha tanti difetti non è un motivo sufficiente. E poi nel Paese non c’è alcuna richiesta di autoritarismo. Meloni magari lo vuole, ma non la gente. Per cui nel caso ci provasse finirebbe male per lei».
Si riferisce alla riforma presidenziale?
«Il referendum di Renzi insegna. Se si toccasse la figura del Presidente Mattarella le persone si spaventerebbero».
Perché da un lato e dall’altro si parla tanto di temi etici senza affrontarli?
«Vengono sfruttati politicamente, mentre bisognerebbe ammettere che sono i problemi di tutti e che c’è poco di ideologico. In Italia viviamo di dibattito. Non siamo più la società dello spettacolo, ma degli eventi. Dal talk show alla parata del 2 giugno».
Tornando all’economia, nessun rischio di autunno caldo?
«Ne abbiamo avuti tanti, ma ora la crisi economica non c’è e nemmeno i rivoluzionari».
Intanto i giovani protestano in tenda contro il caro affitti…
«La loro protesta non sfocerà in nulla di rivoluzionario. Da un lato si prevedono nuovi studentati e dall’altro il mondo cambia, calano le iscrizioni universitarie e si studia online».
Neanche sulle pensioni i giovani faranno la rivoluzione?
«No, perché si comprano il motorino con la pensione del nonno. L’Italia si impasta».
E chi ha il nonno povero?
«Finora non si è lamentato più di tanto, evidentemente si arrangia».
Resta il problema della denatalità.
«Un’altra crisi delle fibre sottili. È un tema di lungo periodo: non si fanno figli per tante ragioni, ma non per motivi strutturali o socioeconomici».
Non è colpa del precariato?
«No, né dell’assenza degli asili nido».
Siamo tutti più egoisti allora?
«E narcisisti. Oggi conta solo quel che facciamo noi, non i figli. Io ho otto figli, nati e cresciuti in un’Italia molto più povera, ma che scommetteva sul futuro. Oggi invece, come dicevo, manca un traguardo. Gli asili nido possono essere utili, ma va ricreata un’idea di futuro che superi l’egoismo».