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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Intervista a Milo De Angelis

Autore di versi memorabili, traduttore dal latino, tifoso sfegatato del Milan
Dall’infanzia nella sua città agli incontri con i più grandi intellettuali italiani Fino al lavoro nelle carceri: “C’è una libertà che sconfina nella gabbia”
Un po’ come Lucrezio, il suo mentore antico, anche Milo De Angelis appartiene alla razza dei solitari. Non lo si vede spesso in giro. Non vive di nuvole mediatiche; è raro che appaia in pubblico. Ho la fortuna di assistere a un incontro dove De Angelis presenta l’edizione da lui curata del De Rerum Natura.
Uno straordinario classico del mondo latino che ha tradotto con sensibilità e potenza linguistica.
Considero Milo De Angelis una delle grandi voci poetiche degli ultimi 30 anni.
Vivi molto appartato. Nell’introduzione al “De Rerum natura” accenni all’isolamento di Lucrezio. Tu stesso tendi il più delle volte a sottrarti
«Certo, l’isolamento è fondamentale per la poesia. Ma la condizione che viveva Lucrezio non è più possibile.
Occorre inventarne un altro – dentro la rete fittissima dei contatti e delle iperconnessioni – e trovare lì la propria solitudine, come a volte si trova un estremo silenzio nel vagone affollato di una metropolitana».
Tra le viscere, il rumore, la profondità di una metro, davvero può accadere di ritrovarvi il silenzio?
«Può succedere, ed è sorprendente: nel colmo del frastuono scendiamo in fondo a noi stessi e raggiungiamo un luogo interiore dove quello che ci circonda e ci minaccia non conta più nulla».
Cosa ti ha dato tradurre Lucrezio e altri poeti?
«Tradurre poesia per me è stato importante come scriverla. E alla fine credo significhi contrastare la morte di un’opera, prolungare fino a noi il breve segmento della sua epoca».
Ci si può esprimere diversamente da ciò che si è?
«Non credo si possa. Certamente non si può per i poetiche amo di più: il contrasto che percorre i versi di Leopardi appartiene interamente alla sua vita. Ma forse è possibile in una tradizione diversa, che va da Ludovico Ariosto a Italo Calvino, alle avanguardie del Novecento».
Ti vedo come un poeta dell’esistenza, che non rinuncia a parlare della propria infanzia e adolescenza. Che momenti sono stati?
«Periodi di vita entusiasmante e di ispirazione inesauribile, specialmente quelli passati sui campi di calcio o sulle piste di atletica: un universo di incontri, sogni, alleanze, fuggevoli amori».
Che tu hai vissuto dove?
«A Milano dove sono nato negli anni Cinquanta. Qui sono le mie radici».
Hanno contato per il tuo accrescimento?
«Contano certamente le radici reali. Ma contano altrettanto le radici inventate: la Russia, l’Argentina, l’India, tutta una geografia fantastica che ha nutrito la mente e la poesia».
A proposito di radici da quale ambiente familiare provieni?
«Provengo da una famiglia qualunque. Mio padre era un uomo legato alle divise e alle imprese degli Alpini.
Mia madre, invece, aveva una vena artistica incompiuta e forse ha cercato nei figli il suo compimento».
Tuo padre di cosa si occupava?
«Nella vita faceva l’assicuratore delle Generali e un po’ si vergognava. Ma alle otto precise della sera diventava il sovrano della tavola. Durante la cena dispensava i suoi innumerevoli racconti di guerra, veri o immaginari.
Ovviamente quando c’era».
Fu un uomo più assente o presente nella tua vita?
«Poteva sparire per settimane. Come tanti uominilegati al mondo militare aveva i suoi vizi segreti, tra cui il gioco d’azzardo e le lunghe trasferte a Montecarlo. Nutriva una sorta di ossessione per il numero 29 (“il più bello dei numeri neri, il più bello dei numeri primi”) e una sera mi chiese sorridendo di non dimenticarlo. Così ho fatto: ventinove sono le poesie diMillimetri».
Hai scritto che fin da ragazzo sentivi il peso della sproporzione. Come l’hai contrastato?
«Bella parola “sproporzione”. La usava spesso Piero Bigongiari, uno dei miei maestri, per esprimere lo sgretolarsi della giusta misura e delle armonie rinascimentali. Ma aggiungeva che non bisogna opporsi a tale dismisura e anzi che bisogna trovare lì, nel luogo più difficile, il proprio significato».
Dismisura fu la scuola, dalla quale, in seconda liceo fuggisti. Cosa era accaduto?
«Scappai dall’Istituto Gonzaga perché non ne potevo più dei preti cantilenanti e delle prove dell’esistenza di Dio. Peccato che al liceo pubblico Berchet sono precipitato in un’ideologia di segno opposto ma non meno angusta, quelle del mio professore di filosofia, devoto militante di “Servire il popolo” e nemico dichiarato per il resto della vita».
Su Bigongiari, poeta e critico, so che provasti a fare la tesi di laurea.
«Mi dissero che non andava bene e mi “consigliarono” una tesi più attuale sulla neoavanguardia. Obbedii. Ma nella tesi criticai alcuni autori del Gruppo ’63. Il controrelatore mi abbassò il punteggio dandomi del presuntuoso. Pazienza. Comunque gli scrissi una lettera di insulti. Fu una reazione da ragazzo, ma lo rifarei anche adesso».
Era un cattivo maestro.
«Era accecato dall’ideologismo culturale».
Chi era?
«Per la cronaca si chiamava Giancarlo Ferretti. Ma il nome non importa. Importa che fosse un burocrate della letteratura, uno dei tanti che riducono l’enigma entusiasmante della poesia a un pallido resoconto sociologico».
Hai spesso distinto tra maestro e insegnante.
«A un insegnante basta essere una persona colta.
Maestro è chi possiede un’anima nobile. Un insegnante è utile e proficuo, ma un maestro è fondamentale, ossia costruisce le fondamenta».
Hai a volte “cantato” la maestria del gesto atletico, in particolare riferita al calcio. Quasi che in quel gesto si nasconda qualcosa in grado di rivelarsi prima di ogni lettura o consapevolezza.
«Il gesto atletico è un gesto sacro, come cantano Pindaro e Bacchilide. Cito due momenti che ho nel cuore e nella mente. Il dribbling secco di Garrincha che sembra restare sospeso nel tempo. Ma anche il salto perfetto di Sergej Bubka, il cui corpo pareva non cadere più dall’asticella. Vicina alla poesia è la linea verticale».
Garrincha fu una stella del calcio brasiliano. Ma sembrava che il suo corpo tutto potesse fare tranne che giocare a calcio.
«Proprio così. Veniva chiamato Garrincha – “uccellino” – per la sua andatura saltellante e aveva una gamba più corta dell’altra. Questo non gli impedì di diventare uno dei giocatori più forti del mondo, con l’aggiunta di una vita leggendaria, breve e drammatica, impregnata di alcool, donne e miseria. E chi l’ha visto non può dimenticare quel suo dribbling funambolico con la palla incollata al piede destro».
Ti senti ancora coinvolto dal calcio?
«Rispetto al calcio, ossia rispetto alla mia dose settimanale di giovinezza, sono dipendente come un tossico incallito».
Hai scritto perfino una prefazione a una storia del Milan.
«Racconto le tappe di questo amoroso legame rossonero. Ancora oggi sono abbonato a Milan Channel, come un bambino un po’ demente».
Il tuo “campo di calcio” resta però la poesia. Hai cominciato a pubblicare negli anni Settanta. Anni di piombo, fu detto. I tuoi come li definiresti?
«Anni tutt’altro che formidabili, anni di conformismo, censura editoriale e luoghi comuni. Ma la rabbia di cui vado fiero nasce anche da lì».
La rabbia è una parola che può far male a sé e agli altri.
«Far male a sé e agli altri in certi casi è necessario per raggiungere una conoscenza del mondo più vera e profonda».
Ti sei imposto come una delle voci più originali della poesia italiana. Poi smetti di scrivere per un decennio.
In che genere di tunnel eri finito?
«Banalmente sentivo di aver scritto troppo e ritenevo che un lungo silenzio fosse necessario per raggiungere un altro stile».
Prima di chiederti se ci sei riuscito vorrei sapere cosa hai ricavato dal tuo lavoro nelle carceri di sicurezza.
«La cosa principale è la consapevolezza del legame sotterraneo tra carcere e poesia: entrambi sono luoghi di massima sorveglianza ed entrambi sono luoghi in cui la Legge si impone gravemente e incide le sue tavole».
Intendi dire che in poesia ci sono comandamenti che
non si possono aggirare o trasgredire?
«C’è una libertà che sconfina nella gabbia».
Il carcere come una dura scuola interiore, che rapporto può avere con la poesia?
«Hai mai visto una cella? Nove metri quadrati da dividere, se va bene, con un’altra persona: basta spostare uno sgabello per provocare il caos. Il paragone con un testo poetico viene spontaneo. Dopotutto, ho la sensazione che ci siano più devoti della poesia in carcere che fuori».
A proposito di scuola e insegnamento chi sono stati i tuoi maestri?
«Se devo citarne uno “fondamentale” penso a Giorgio Colli, agli incontri toscani degli anni Settanta per parlare di Nietzsche, al potente esercizio del suo pensiero».
Un maestro mancato, forse Franco Fortini.
«Pesava il suo carattere collerico ed era quasi impossibile non litigare con lui. Non fu un rapporto facile. Giunsi a rimproveragli di aver fatto sparire le mie lettere più “critiche” nei suoi riguardi. Mi rispose di non essere stato lui. Ebbi più di un dubbio. Ed è restato un conto in sospeso, anche dopo che è morto».
Sei mai stato tentato dal genere romanzo?
«Mai. Incapacità congenita».
Eppure qualcosa che gli si avvicina l’hai scritta, cioè “La corsa dei mantelli”.
«La verità è che quando ho tentato di scrivere in prosa, la poesia prendeva il sopravvento e bloccava tutto.
Rimaneva solo qualche frammento a metà tra lirica e racconto, senza una fisionomia precisa, incerto sul da farsi e alla fine insignificante».
Parlavi di stile. Come è cambiato il tuo stile dopo il lungo silenzio?
«C’è un silenzio che muta e un silenzio che conferma.
Nel mio caso il silenzio dopo Distante un padre è stato il silenzio che si trova di fronte a un muro e non può proseguire in quella direzione. Mutare è stato una via obbligata, pena la cosa peggiore che può capitare a un poeta, ossia fare del proprio stile una rendita».
Definisci eroici i valori dell’adolescenza. Come definiresti quelli della vecchiaia?
«Non meno eroici. Nell’adolescenza avevo di fronte un tempo infinito. Ora ho di fronte la fine del tempo: zero e infinito si congiungono».
Come stai vivendo il tempo che passa e indebolisce l’organismo?
«Non corro più come una volta, ma non mi lamento».
Lucrezianamente ti immagino distante dal Panteon delle divinità. Il tuo rapporto con Dio?».
«Più del fallimento di Dio occupiamoci del fallimento dell’io. Alla Bibbia e ai Vangeli ho preferito un’altra via: quella di Omero, della tragedia e degli eroi. Una volta ho detto che mi commuove più la morte di MarinaCvetaeva che non quella di Gesù di Nazareth».
Prima accennavi al sacro. Che cos’è per te il sacro?
«Il sacro in cui credo non ha nulla a che vedere con le religioni, nulla a che vedere con la croce e il nirvana.
“Sacra” – ossia terribile e assoluta – è soltanto la parola poetica».
Talmente assoluta e terribile da poter mettere fine alla vita?
«Non c’è dubbio. Morire significa non trovare più la parola, non trovare più nulla che possa testimoniare di noi».
Nell’introduzione a Lucrezio accenni alla riflessione di Seneca sul suicidio. È davvero un altro modo per pronunciare la parola vita?
«Esiste un suicidio drammatico e lancinante come quello di Paul Celan o Cesare Pavese, ma esiste anche un suicidio filosofico, sentito come l’unica via di purezza morale: Seneca prima l’ha teorizzato e poi l’ha messo in pratica».
Pensi alla morte come alla “sorella” più prossima o la più distante?
«La morte è al tempo stesso la più prossima e la più distante. Ma non la penso come una sorella, semmai come un’assassina. E l’aspetto a mano armata.
Eppure non sembri confidare molto nel futuro.
Bisogna cercare di finirla con il sorriso ebete dell’avvenire».