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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Intervista a Massimiliano Gioni e Beatrice Trussardi


Nel maggio 2003 Massimiliano Gioni e Beatrice Trussardi davano il via ai loro progetti in pubblico a Milano
Tra shock e rotture di tabù. Vent’anni dopo si raccontano
La mattina del 7 maggio 2003, una Uno Bianca con agganciata una roulotte sprofondata nel pavimentocompare nell’ottagono della Galleria Vittorio Emanuele di Milano. Il risultato di quella installazione firmata da Elmgreen & Dragset è una multa di 687,75 euro e la nascita della Fondazione Nicola Trussardi. Da allora sono passati vent’anni di mostre e progetti allestiti in spazi pubblici o luoghi della città solitamente chiusi, valorizzati per l’occasione. I bambini impiccati di Maurizio Cattelan in piazza XXIV maggio, come l’autoritratto gonfiabile nudo di Pawel Althamer che vola su Parco Sempione, hanno introdotto una nuova percezione dell’arte contemporanea in Italia, rotto tabù e anticipato tendenze. Il 5 giugno il compleanno si festeggia al Teatro Gerolamo con la personale di Diego Marcon (fino al 30 giugno), tra video e inquietanti pupazzi postumani. A soffiare sulle candeline saranno gli ex ragazzi della Generazione X, la presidente della Fondazione, Beatrice Trussardi, e il direttore artistico Massimiliano Gioni, protagonisti di un sodalizio professionale che funziona ancora.
Quando vi siete incontrati per la prima volta?
Beatrice Trussardi: «Massimiliano mi era stato segnalato come persona speciale, giovane, visionaria, dall’artista Patrick Tuttofuoco. Era il maggio 2002, a Manifesta, Francoforte, ed eravamo tutti giovani (ride).Quando mi decisi a scegliere un altro format per la Fondazione, che allora aveva uno spazio espositivo in piazza della Scala, iniziai a dialogare con variepersonalità del mondo dell’arte e chiamai anche Massimiliano. Capii subito che era la persona giusta».
Massimiliano Gioni: «Ricordo il primo incontro nell’estate di quell’anno, nel suo ufficio. Quando poi mi chiese di intraprendere quest’avventura, andammo a Londra per confrontarci con James Lingwood di Artangel e poi a New York da Tom Eccles, direttore di New York’s Public Art Fund. Erano i modelli per sviluppare la nuova idea della Fondazione: progetti aperti negli spazi cittadini».
BT:«La città doveva essere la protagonista, questo era chiaro sin da subito. Massimiliano decise di mapparla, chiedendo a 30 personalità di scegliere un postoche la rappresentasse. Nacquero così le cartoline diPanorama Milanodistribuite gratuitamente».
MG:«Si trattava proprio dell’inizio.
Quello era un momento che ci ha fatto capire che c’erano curiosità e nuovo entusiasmo in giro.
Parteciparono Dario Fo, Ettore Sottsass, Franca Sozzani…».
Che cosa volevate fare? La Fondazione, nel 2003, si definiva “museo nomade”.
BT:“Entrambi allora venivamo da New York. Il confronto con Milano era schiacciante. Non c’era, come non c’è, un museo d’arte contemporanea. Non ci interessava uno spazio istituzionale, ma che il pubblico inciampasse nelle nostre mostre, che si accorgesse dell’artecontemporanea per iniziare un percorso di approfondimento».
MG: «La cosa che mi ha colpito subito di Beatrice è che non voleva essere la collezionista fotografata con le opere in casa. La sua è la figura di una producer mossa dalla forza del cambiamento, più che dell’accumulazione. Tutti e due, non milanesi, vivevamo la città con ammirazione, subendone il fascino e volendola scoprire di più.
Eravamo stanchi della polemica sul mancato museo d’arte contemporanea e abbastanza giovani per rivendicare che magari la soluzione poteva essere un’altra: l’intera città doveva diventare il suo museo. Il museo non è l’archistar, ma una modalità per riscoprire lo spazio. Per noi l’identità nel XXI secolo poteva essere un concetto malleabile e imprevisto, flessibile e quindi più contemporaneo».
BT:«E poi c’era lo slancio fondamentale dato dalla voglia di rinnovarsi sempre. Ancora adesso.
Ogni volta, montiamo, smontiamo e ripartiamo da zero. Tutto resta solo nella memoria di chi l’ha visto.
Questo, all’inizio, poteva rappresentare un rischio per l’identità della Fondazione, ma non lo è stato per Massimiliano, che è il vero filo conduttore».
MG: «Il filo conduttore è il cambiamento stesso. Cambia lo spazio, cambia il progetto. C’era da subito una vocazione pedagogica: mostre aperte tutti i giorni e gratuite. È stata anche una soluzione per non misurare i risultati con il numero dei biglietti venduti. Venendo dalla moda, Beatrice valutava il successo in termini di visibilità ecomunicazione. Da subito abbiamo capito che la comunicazione era un altro spazio creativo di cui la Fondazione doveva occuparsi».
La vostra comunicazione, vedi la roulotte in Galleria e i fantocci bambini impiccati in piazza di Maurizio Cattelan, passava anche attraverso lo shock.
MG: «Elmgreen & Dragset beccarono una multa in Galleria il giorno stesso dell’apertura; non si è mai capito se per ironia dei vigili o per rigidità, dato che avevamo tutti i permessi. Ma allo shock alternavamo progetti più poetici: dopo la roulotte, ci fu Darren Almond a Palazzo della Ragione: una mostra intima, sentimentale, romantica. Volevamo portare l’artenella città con la coscienza che l’arte dovesse rimanere se stessa. C’è un’idea di arte pubblica in Italia e in Europa con obbrobri di sculture geometriche che devono passare inosservate. Noi credevamo in un pubblico che potesse gestire la complessità».
I bambini impiccati di Cattelan li guardarono tutti.
MG: «Nel 2004, Cattelan non faceva arte in Italia da un po’: era più famoso che visto. L’ufficio di Beatrice era in piazza della Scala e da lì facevamo corse continue a Palazzo Marino per trattare con il sindaco. Gabriele Albertini fu molto ricettivo, sapeva tutto dei “bambini”. Noi cercavamo di presentarli con degli eufemismi elui diceva: “ah, impiccati”. Era il tempo delle foto delle torture di Abu Grahib, da poco c’era stata la strage di Beslan… l’opera era in sintonia con un momento storico delirante e ti invitava a riflettere su ciò che fosse legittimo esporre nello spazio pubblico».
BT:«Maurizio Cattelan mi vedeva troppo tranquilla: “Ma tu hai capito che cosa stai facendo?”, chiedeva. E io: “Certo, andiamo avanti”. Questa mostra ha avuto tante conseguenze.
Per oltre una settimana quotidiani e tg non parlavano d’altro: credo sia stato un record non voluto sul piano della comunicazione. Il pubblico era spaccato. Ma quasi tutte le istituzioni milanesi ci difesero».
C’è una formula? Che cosa può diventare una vostra mostra?
MG: «The Unexpected, dice sempre Beatrice. L’inatteso. È bello riuscire a non ripetersi dopo vent’anni. Su alcuni posti abbiamo lavorato per tanto tempo. Il luogo e l’artista, insieme con un effetto che deve essere di sorpresa e di scoperta: questa può essere la formula.
Abbiamo sempre scelto artisti diventati più grandi dell’arte: che dicessero qualcosa sul mondo e sul presente. Il rimpianto è quello di nonaver fatto una mostra di pittura perché non abbiamo mai potuto inchiodare nulla: sono tutti interventi completamente reversibili. La biografia della Fondazione dovrebbe intitolarsi “vent’anni senza battere chiodo” (ride)».
BT:«La cosa che rende unici e irripetibili i progetti è l’alchimia che si crea tra il luogo e l’artista attraverso Massimiliano».
MG: «Quella di Beatrice è una committenza che mette a disposizione gli strumenti per fare qualcosa di inusuale. Non l’ho mai sentita dire no. Magari accadesse così nei musei…».
BT:«Si tratta di gusto personale. Se mi chiedo quale sia la mia mostra preferita rispondo: tutte».
Perché adesso Diego Marcon?
MG: «Aveva 18 anni quando abbiamo iniziato, si è formato anche con i nostri progetti. Questa cosa ci piaceva. Marcon racconta favole complesse. L’idea di infanzia che traspare dalle sue opere non è rassicurante come non lo è nel libroCuore o inPinocchio. Il problema chiave del suo lavoro è capire che cosa definisce l’umano in un mondo digitale e di plastica.
La sua conclusione è che l’umano è nell’eccezione, nel patologico».
BT:«È un pugno nello stomaco che stimola tante domande».
“A chi serve la luna”? Tanto per citare un’opera di Fischli & Weiss che amate. A chi serve l’arte?
MG: «Si potrebbe vivere senza luna, ma è bellissima da guardare e ispira tante immagini. Così l’arte è espressione di inutilità, ma forse per questo è la cosa più necessaria per capire e orientarsi nel mondo».
BT:«No, per me è proprio necessaria. Serve per accendere una speranza. Non potrei proprio farne a meno».