Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 03 Sabato calendario

Rileggere Gianfranco Contini


Così lo definiva Fortini. Filologo, glottologo, cultore dei classici ha lasciato una controversa storia della letteratura che ignora Silone,
Elsa Morante, Primo Levi. Memorabile il suo necrologio di Pasolini
Gianfranco Contini non è stato solo uno dei grandi critici- scrittori del secolo scorso: la sua figura sfuma nella mitologia – “re Mida della critica” lo definì Fortini –, tanto da poter immaginare un prima di C. e dopo C.!
Filologo e cultore dei classici, glottologo e studioso delle cosiddette “varianti”(le stesure dei manoscritti prima della edizione finale), ma anche critico militante e contemporaneista ( analizza i contemporanei con il rigore del filologo e la tendenziosità del polemista), oltre che ex partigiano azionista. Ora, chiediamoci subito se Contini, sensibile soprattutto ai fatti stilistici e linguistici, parla a tutti. Credo di sì, e anzi nei suoi saggi affiora una filologia dal volto umano, la sottile auscultazione dei testi coincide con l’autobiografia, con la personalità. Dietro la attenzione ai valori formali si cela una natura idiosincratica, a volte meravigliosamente intrattabile. Anche le sue palesi esagerazioni critiche dipendono da una faziosità quasi caratteriale. All’interno della nostra letteratura predilige la “funzione Gadda” ( o anche “funzione Dante”), l’espressionismo inteso in senso ampio, e cioè la oltranza espressiva, il plurilinguismo, la deformazione, l’iperbole: macaronici e dialettali, scapigliati e Teofilo Folengo, e fino a Jacopone da Todi. Vede “espressionisti” dappertutto, anche tra i pittori manieristi come Pontormo,mentre fuori d’Italia stravede per Quevedo, Rabelais, e naturalmente Joyce. In nome di una opzione quasi talebana per questo “espressionismo ecumenico” la sua controversaStoria della letteratura dell’Italia unita si permette di ignorare Silone, Elsa Morante, Primo Levi e Volponi, mentre dedica le ultime pagine a un sopravvalutato Pizzuto ( prosatore minore, cui manca l’energia di Gadda). Non tanto e solo la Teoria prevale sul gusto quanto si rivela qui un tratto provocatorio e perfino di dispettosopuntiglio. È certo straordinario come uno stilcritico apparentemente così asettico ci informa spesso di dove e come sta lui. Ad esempio l’incipit di un suo elzeviro: «Una sera del febbraio ‘ 72 a Parigi, ci eravamo imbucati in una umile trattoriola cinese; quando, su un defilato schermo televisivo, inopinatamente appare Nixon volteggiante sullo sfondo della Grande Muraglia» ( inUltimi esercizi ed elzeviri).
Ma ricordiamo anche certe definizioni taglienti, di tono epigrammatico, come, a proposito di Ezra Pound, e della sua “mezzacultura” da provinciale innamorato dei classici, che fingeva di sapere l’italiano: «Non si nasce impunemente nell’Idaho». Insuperabile nella ritrattistica – e nei molti “ricordi” – come se una delle funzioni della critica fosse proprio di sottrarre all’oblio le persone degli autori, aveva non solo scienza e acume ma quelle “facoltàdivinatorie e associative” riconosciute al critico d’arte Roberto Longhi (a lui caro), che fanno del critico quasi un “mago”. Solo un prelievo dai suoi saggi fondamentali su Dante: all’autore della Commedia, secondo Contini, basta un solo endecasillabo per spiegare l’umano desiderio di resurrezione: «Forse non pur per lor ma per le mamme».
Ma c’è un punto davvero decisivo: Contini, maestro riconosciuto e autorità somma della critica, docente alla Normale di Pisa e presidente della Società Dantesca, confessa il suo amore per l’avventura ( «rompere la trama noiosa dei giorni»). Non diventa mai un burocrate del sapere accademico, appagato dal suo status. Lo scarto dalla norma non riguarda solo lo stile ma la mentalità, la postura intellettuale. Il lettore comune può inoltrarsi nei suoi saggi anche come avventura dentro la lingua italiana: la sintassi elegante, composta e un lessico ricercato, prezioso (solo due esempi: “terebrante conversazione” – ossia “penetrante…” – e “semplice sedulità” – ossia “sollecitudine premurosa…).
Diligenza e voluttà si intitolava in modo assai pertinente un libro- intervista con Ludovica Ripa di Meana: scrupolo filologico e abbandono sensuale ai testi.
Alcune intuizioni critiche sono felicemente spiazzanti e creano associazioni che vanno oltre la letteratura: dopo aver analizzato le novità tecniche di Pascoli, Contini lo associa ad una forma di esistenzialismo, «non per il trito romanticismo del mondo come “nulla” ma per l’elaborazione del limite della morte come cardine di ogni sistematica riflessione». Mentre il “dramma” di D’Annunzio consiste nell’essere «degustatore ( e perciò stesso interruttore)» della propria vitalità e felicità. Formula continiana perfetta, che rivela un intuito psicologico infallibile: a voler degustare – compiaciuti – qualsiasi cosa, fatalmente la perdiamo. È poi memorabile il ritratto – o bozzetto – di un “celebre francesista”, che piomba a un pranzo fiorentino per intimidire gli ospiti con un epigramma avvelenato su un assente: «serrato negli stivaletti invernali, il nuovo venuto rizzava napoleonicamente tutta la sua breve statura». Assolutamente perfido. Difficile trovare una descrizione satirica più affilata di un accademico tronfio e napoleonicamente altezzoso.
Il necrologio su Pasolini, che lo adorava ( e che venne da lui scoperto), è uno dei pezzi più commoventi: «la qualità che Pasolini possedeva in rara misura era dunque non l’umiltà, ma qualcosa di molto difficile da ritrovarsi: l’amore dell’umile, e vorrei dire la competenza in umiltà». Un amore un po’ pascoliano, con il suo mondo abitato da «esseri ontologicamente indigenti», e con i suoi film intrisi di caritas. Probabilmente questa amorosa «competenza dell’umile» sottende l’intera stilcritica di Contini, benché apparentemente autoritaria e a volte spigolosa.