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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Intervista a Deepti Kapoor

Deepti Kapoor vive in Portogallo e guarda il suo paese di origine, l’India, da una distanza che le concede una visione critica che pochi altri, rimasti in patria, sanno tenere. L’età del male è l’espressione di questa distanza e di questa visione. Dalla sua voce mentre ne parla trapela l’urgenza di lasciar filtrare un messaggio che superi la trama e arrivi al cuore di chi legge. Vuole che fuori dall’India si sappia del sistema di corruzione che affligge la seconda grande potenza asiatica, ma probabilmente, più di tutto, vorrebbe che se ne rendessero veramente conto gli indiani. Questa è la sua chiamata alle armi.
"L’età del male” è il suo primo romanzo?
«Sì, nel senso stretto del termine, sì. Il mio primo libro è quasi un memoir, si intitola A Bad Charachter».
Perché “quasi”?
«Ho cambiato diversi particolari perché non volevo che mia madre rimanesse turbata leggendo che usavo il vero nome di mio padre o del mio fidanzato di allora: la loro morte improvvisa è stata la ragione per la quale ho deciso di scrivere».
È riuscita nel suo intento?
«A dire la verità, no. Mia madre ovviamente ha capito di cosa stessi parlando e le ragioni per le quali lo facevo. Non ne era turbata per niente, anzi, penso che anche per lei fu una specie di sollievo».
Sembra che la morte sia una sorta di molla creativa per lei…
«La morte di mio padre e del mio fidanzato, così vicine e inaspettate, hanno rappresentato il mio primo scontro con l’idea di morte. Mi hanno costretta a fare i conti con il lutto, la perdita. E credo di avere cominciato a scrivere per processare questo dolore. Superato il mio dolore personale, ho cominciato a riconoscere la stessa sofferenza negli altri, nell’ambiente».
È stato a quel punto che ha deciso di affrontare un romanzo?
«Sì, stavo finendo di lavorare al memoir e a Nuova Delhi si è verificato un evento terribile: una giovane fisioterapista, Jyoti Singh, è stata torturata, stuprata e uccisa da un branco. È diventato un caso e ha sollevato enormi proteste in tutta l’India. Così ho avvertito il condiviso. Qualcosa si era rotto a livello comunitario, la città stessa aveva tracciato una linea tra la decenza e la profonda indecenza della corruzione serpeggiante che la ammorbava».
Si è chiesta “perché”?
«Mi sono chiesta da dove venisse tutta questa brutalità. Non poteva semplicemente essere archiviata come un gesto folle. Faceva parte di una violenza e di una corruzione introiettate che sono il male del sistema, il cancro delle nostre comunità».
Ha individuato delle ragioni pratiche?
«Sì. Jyoti stava tornando a casa a bordo di quelli che chiamano private bus ma che sono solamente autobus illegali, che non dovrebbero esistere e che vengono tollerati dalle autorità perché la loro circolazione si basa su un ampio giro di interessi economici. Nel caso di Jyoti questi interessi hanno fatto sì che non ci fosse controllo: che la polizia non intervenisse. Questo, più che il fatto in sé, ha scatenato l’ira popolare».
Per lei, quindi, è stato una specie di impulso?
«Una necessità morale, direi. Mi sono trovata a ripensare ai miei anni a Delhi, quando frequentavo miei coetanei molto molto ricchi senza rendermi conto che quello sfarzo era qualcosa che metteva radici in un domino di sofferenza, povertà, malessere. Volevo tornare indietro, andare a fondo».
Faceva la giornalista, allora?
«Sì, e questo mi portava a parlare con persone diverse, appartenenti a tutte le classi sociali. Per anni ho accumulato storie che avrei voluto raccontare, mettere in relazione. Sono finite in L’età del male».
Non nei suoi articoli?
«Solo in parte. Sentivo la necessità di andare più in profondità, di entrare nelle storie con la libertà che un giornale difficilmente mi avrebbe concesso».
Per questo il romanzo comincia con un giovane autista?
«Esatto. Vedevo continuamente questi ragazzi al servizio dei potenti ma completamente fuori posto. Facevano gli autisti, gli inservienti, le guardie di sicurezza, in ambienti lussuosissimi, ma si vedeva che non era la loro realtà. Volevo approfondire, raccontare chi vive ai margini della nuova ricchezza indiana e ne subisce contemporaneamente il fascino e il male che il sistema genera».
È qualcosa che è sempre esistito, in India?
«In un certo senso, sì. Ma si è accentuato in maniera esponenziale. L’India è passata da un modello economico di stampo socialista a uno di stampo capitalista e Delhi ha incarnato più di ogni altra città questo cambiamento. Eravamo in competizione con la Cina per diventare la prima potenza economica globale, e la città ha cominciato a mutare per dare l’impressione di essere un polo commerciale unico in Asia. È diventata una metropoli di stampo occidentale nel giro di poco tempo. Chi poteva ha cominciato a ostentare la ricchezza».
In che modo?
«Sui quotidiani si moltiplicavano gli articoli di lifestyle che rappresentavano Delhi come una nuova mecca del lusso. In particolare, mi ricordo che andava molto di moda il marmo italiano: chiunque potesse permetterselo si faceva letteralmente rivestire le case di marmo».
Scelte discutibili…
«Già. Ma non è una questione di cattivo gusto; non solo. È che quelli stavano diventando i modelli di vita ai quali aspirare, così anche chi subiva direttamente la corruzione del sistema ne era accecato. Accecati dal marmo italiano».
C’è stato qualcosa di positivo in questo cambiamento?
«Molto ottimismo. La classe media ha cominciato ad avvertire l’opportunità per uno scarto in avanti e la città si è evoluta. Chi ha avuto la possibilità di studiare ha trovato accesso a posti di lavoro mai immaginati solo dieci anni prima. Però anche in questo caso è un benessere che non arriva in profondità; si ferma a una piccola percentuale di popolazione».
Cosa significa scrivere di questi temi, in India?
«Scrivere della ricchezza significa scrivere di disuguaglianza. E solleva anche il grande problema morale che hanno le classi medie: in un paese nel quale l’1% della popolazione controlla il 40% del benessere nazionale, mentre il 50% controlla il 3%, chi si trova in mezzo, a beneficiare indirettamente di questa disparità è moralmente diviso tra la muta accettazione e il rifiuto per un sistema che non sta funzionando».
Si sente in pericolo nel farlo?
«Non con i miei romanzi. Scrivo in inglese, e sono pochissimi i lettori indiani che lo leggano. Inoltre, è come se filtrando questa realtà, brutale e provata, attraverso la finzione, la rendessi meno offensiva per chi ne è parte, per chi è al potere. L’attuale governo, legato a doppio filo alla corruzione e alle organizzazioni mafiose, è miope: si preoccupa di censurare chi ha vastissimo seguito sui social in India, senza preoccuparsi che fuori dal paese si diffonda un sentimento contrario».
E se ne avesse scritto nei suoi articoli?
«Se fossi rimasta in India, non avrei potuto. È la ragione per la quale moltissimi giornalisti indiani sono in prigione in questo momento».
Si aspetta invece una risposta popolare?
«Se L’età del male venisse tradotto in Hindi, cosa che non è ancora accaduta, mi aspetterei che, come è successo per coloro che lo hanno letto in inglese, i lettori indiani capissero di cosa parlo. Fuori dal paese, si sono concentrati tutti soprattutto sulla trama, ma in India sanno cosa c’è dietro. Sanno leggere oltre il plot e capiscono quello che sto cercando di fare».
Non teme una sorta di desensibilizzazione sull’argomento della corruzione?
«Sì, senz’altro. È qualcosa che già accade in larga misura. Gli indiani vedono rappresentato il male del loro paese, filtrato dalla letteratura, dal cinema e dall’arte, e scrollano le spalle come se non potessero farci nulla. Ma bisogna contare sulle minoranze informate, su chi sa che qualcosa si può fare e ha intenzione di combattere».
È un tema che gli italiani sentono molto vicino…
«Non a caso il mio romanzo è stato paragonato a Il padrino o alla serie tv Gomorra. Ma è un rischio controllato: per arrivare a toccare gli animi di pochi, si deve passare attraverso le masse».
Ha sempre voluto scrivere un thriller?
«A dire il vero, no, e non sono nemmeno sicura di averlo fatto. Il mio è un libro che non finisce, e questo turba i lettori di genere, che si aspettano di passare attraverso tutto il male per arrivare a una soluzione. Invece dal mio male non c’è veramente uno sbocco».
Mi ricorda Cormac McCarthy
«Lo spero, è uno dei miei modelli letterari».