La Lettura, 3 giugno 2023
Come dipingeva Caravaggio
Forse è questa la descrizione più antica di Michelangelo Merisi da Caravaggio (Milano, 1571- Porto Ercole, oggi provincia di Grosseto, 1610), descrizione dettata da un testimone al Tribunale Criminale del Governatore a Roma l’11 luglio 1597: «Questo pittore è un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine che portava un paro di calzette negre un poco stracciate che porta li capelli longhi dinanzi».
È un ritratto che traggo dal documento 456 pubblicato da Stefania Macioce in un volume fondante per gli studi sul Merisi, un volume del quale è appena uscita a Roma la terza edizione aggiornata. Nel libro, dal titolo Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1883, si raccolgono 1.100 documenti ritrovati in diversi archivi non soltanto romani, cui si aggiungono le biografie e gli inventari delle maggiori collezioni romane con dipinti di Caravaggio; un volume indispensabile per tutti gli studiosi dell’artista che ci permette di ricostruire lo spazio dove viveva, i suoi inizi difficili a Roma, il rapporto con gli amici, il suo percorrere, armato di spada e di pugnale, le strade di Roma fra Palazzo Madama e piazza Navona, luogo di incontri fra artigiani, armieri, commercianti, prostitute ma anche luogo di scontro fra gruppi avversi, anche di pittori.
Ci è giunta notizia di tutto questo perché Caravaggio si scontra più volte con i tutori dell’ordine e viene incarcerato per risse o per avere portata la spada senza autorizzazione. Sarà salvato in diverse occasioni dal suo maggior protettore, il cardinale Francesco Maria del Monte nel cui palazzo l’artista ha studio. Ma il cardinale nulla potrà quando il pittore, in uno scontro fra due gruppi armati, ucciderà con un colpo di spada all’inguine Ranuccio Tomassoni. È il 28 maggio 1606. Caravaggio, subito incriminato e colpito da bando capitale, cioè condannato a morte, è costretto a fuggire a Napoli, a Malta, in Sicilia, infine ancora a Napoli da dove partirà per attendere la grazia ai confini con lo Stato della Chiesa, ma morirà a Porto Ercole senza poter tornare a Roma dove, dal 1596 al 1606, era diventato un artista fra i più richiesti e certo il più innovatore.
I documenti pubblicati da Stefania Macioce raccontano la committenza dei dipinti, suggeriscono la difficoltà d’imporre un nuovo linguaggio sulla scena dominata dalla tradizione accademica e rivoluzionano alcuni aspetti del percorso dell’artista formatosi giovanissimo a Milano nella bottega di Simone Peterzano. In passato l’arrivo a Roma di Caravaggio si fissava attorno al 1592, ma i documenti provano che il pittore giunge solo agli inizi del 1596. Restano quattro anni privi di notizie. La critica ha ipotizzato, a cominciare da Lionello Venturi, un soggiorno a Venezia che vuol dire rapporto con Giorgione, Tiziano, Tintoretto, soprattutto Tintoretto. Un biografo di Caravaggio di poco successivo, legato alla tradizione accademica, Giovanni Pietro Bellori, ricorda che l’artista «essendo di ingegno torbido e contentioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano giunse a Venetia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione, che se lo propose per iscorta nell’imitatione».
A questo punto è necessaria una riflessione sui temi più significativi affrontati dalla critica. Due modelli si confrontano: da una parte una lettura attenta al contesto storico; dall’altra un’indagine formale di raffinato attribuzionismo. Da una parte Lionello Venturi che, nel 1910, inizia le sue ricerche su Caravaggio; dall’altra Roberto Longhi che poco dopo propone importanti contributi su Caravaggio stesso e i caravaggeschi.
Nel suo recente e fondante volume sull’artista (Cantiere Caravaggio. Questioni aperte. Indagini. Interpretazioni, De Luca, 2022) Alessandro Zuccari propone un diverso modo di affrontare il problema Caravaggio: non attraverso una monografia, ma raccogliendo un gruppo di densissimi saggi che sviluppano alcuni temi chiave della moderna ricerca caravaggesca. Già Maurizio Calvesi nei suoi studi aveva respinto una delle più diffuse convinzioni della critica, cioè che Caravaggio fosse un pittore maudit, maledetto, in contrapposizione con la Chiesa di Roma. Ma Caravaggio dipinge semmai per un diverso modello di Chiesa, quella rivolta agli esclusi, ai poveri, nel segno della dottrina dei Teatini, degli Oratoriani, una Chiesa che rappresenta e dialoga con quel mondo. Per essa il pittore inventa un nuovo modo di distribuire la luce sulla superficie dipinta e trasforma i fedeli, gli umili, in protagonisti della scena nelle sue pale d’altare ma anche nei quadri di minore dimensione. Questa scelta di rappresentare il mondo degli esclusi si contrappone ai dipinti accademici, grandiose macchine teatrali create dopo il Concilio di Trento (1545-1563).
In questo complesso quadro Alessandro Zuccari affronta il problema del disegno in Caravaggio respingendo la tesi che l’artista operi direttamente a pennello sulla tela, senza nessuna griglia compositiva, senza nessuna traccia grafica, senza nessuna progettualità nella composizione delle scene. Questo modo di dipingere il mondo reale senza apparente progetto riflette un’origine nascosta: Merisi considerato quasi come un pittore impressionista che dipinge sur le motif.
In realtà dipinge in studio dove può dosare, indirizzare, come vedremo, le diverse fonti di luce utilizzando strumenti tecnici, specchi, lenti convesse con rivoluzionaria consapevolezza. Ma come possiamo guardare sotto la pellicola dipinta? Come raggiungere gli strati più nascosti del processo creativo dell’artista? Alcune indagini – prima radiografie, poi più di recente riflettografie ai raggi infrarossi – hanno permesso di scoprire le fasi della progettazione di Caravaggio e quindi il suo «disegno», anzi i suoi diversi modi di ideare, correggere, modificare il dipinto. Così nel 1952 Lionello Venturi pubblica Studi radiografici sul Caravaggio che mettono in evidenza la complessa progettazione delle opere del Merisi; questo modello di indagine viene ripreso da Walter Friedländer nei suoi Caravaggio Studies (Princeton, 1955). Si scoprono così esempi inconfutabili della progettazione grafica del Merisi, anche – e proprio – nelle sue opere più complesse come i dipinti di San Luigi dei Francesi a Roma.
La conferma che Caravaggio sapesse disegnare viene dalla sua formazione: per quattro anni, dai 13 ai 17, il pittore, giovanissimo, si forma nella bottega di Simone Peterzano che si dichiara allievo di Tiziano ma che è certo un importante rappresentante dell’officina lombarda dei pittori della Controriforma, dunque pienamente dentro la tradizione accademica del disegno e del suo trasferimento nel dipinto finale attraverso metodi diversi – quadratura, spolvero, incisione dei contorni.
Ora, per scoprire il processo creativo di Caravaggio prendiamo le mosse da alcuni capitoli del volume di Zuccari. Cominciamo dalla testa della Medusa donata dal cardinale del Monte al granduca Ferdinando I de’ Medici, un pezzo dal diametro di un braccio fiorentino, 58 centimetri. Ebbene una testa del tutto simile, ma più piccola di quella agli Uffizi, del diametro di due palmi romani, 45 centimetri, è stata di recente scoperta da Maurizio Marini, poi confermata da Mina Gregori e accolta come autentica anche da Zuccari, una testa che, salvo una firma falsa aggiunta, permette di cogliere al vivo la progettazione grafica dell’artista. Nella riflettografia si vedono subito gli spostamenti della bocca, del naso, degli occhi confermata dalla ricostruzione dei due diversi, sovrapposti disegni originari. L’analisi radiografica e agli infrarossi della Medusa degli Uffizi invece non ha individuato nessun disegno sottostante, il che vuol dire che la più piccola testa di Medusa, ora in collezione privata, è stata come la prova generale del tondo degli Uffizi.
Esiste un rapporto fra queste due teste e altre opere di Caravaggio? Ed esiste una tradizione di ritratti allo specchio nella pittura rinascimentale? Basta ricordare la simbologia cosmica dello specchio convesso dei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck (1434) e l’Autoritratto del Parmigianino del Kunsthistorisches di Vienna (1525) dove lo specchio convesso propone una dimensione dello spazio con due luci, una dalla finestre al fondo, una proveniente da sinistra e fuori campo; il ritratto con la forte deformazione del braccio e della mano in primo piano vuole rappresentare la figura sospesa nello spazio, divenuto sferico, della stanza. Anche Caravaggio, evocando un modello manierista, usa la forma convessa dello specchio come misura del cosmo e come sintesi tra figura e spazio attorno e lo fa, come finora non si era notato, in una serie di opere dove il taglio rettangolare della superficie dipinta ha mascherato l’uso dello specchio convesso. Penso al Ragazzo con canestro di frutta e al Bacchino malato della Galleria Borghese a Roma, alla Maddalena penitente della Doria Pamphilj sempre a Roma, al Ragazzo morso da un ramarro della National Gallery di Londra e soprattutto al Bacco degli Uffizi dove è chiara la mediazione dello specchio convesso, basta vedere il braccio destro della figura e la deformazione della natura morta in primo piano.
Nella Marta e Maria Maddalena del Detroit Institute of Arts (1600-1601) ancora uno specchio convesso riflette la finestra alta e chiara e suggerisce uno spazio esterno denso di una luce diversa da quella avvolgente che viene da sinistra. E riflettono lo spazio alcuni vasi di vetro posti in basso nel Ragazzo morso da un ramarro della National Gallery di Londra oppure il vaso in primo piano del Bacco degli Uffizi.
L’uso dello specchio convesso è ancora da approfondire nella ricerca su Caravaggio, ma l’importanza di questo strumento risulta evidente da un inventario del 26 agosto 1605 dello studio dell’artista, inventario nel quale si ricordano «una credenza con dentro undici pezzi di vetro, cioè bicchieri, carafe et fiaschi di paglia» e ancora «una brocca d’acqua» e «un specchio grande. Item uno scudo a specchio». Certo, possiamo ipotizzare che i diversi vetri nella credenza fossero modelli per particolari dei dipinti dove, come nel Bacco degli Uffizi, una boccia di vetro viene proposta in primo piano, ma interessano di più lo specchio convesso (lo «scudo a specchio») che ci appare uno strumento di ricerca importante, come lo è lo «specchio grande» certo impiegato dall’artista per fare convergere la luce su alcune zone dello studio altrimenti in penombra, luce che il pittore voleva far piovere dall’alto. Lo scudo a specchio rappresenta lo spazio oltre il limite del dipinto e assume una funzione simbolica di visione del cosmo come già in Jan van Eyck e in Parmigianino.
Osserviamo ora il Martirio di San Matteo della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi a Roma (1599-1600) e mettiamolo a confronto, come propone Zuccari, con la scansione radiografica e riflettografica: è subito evidente la totale assenza, nella versione finale, del grandioso sistema di architetture che occupa lo sfondo e la cui complessa organizzazione prospettica è restituita in schema: si tratta di un sistema di architetture che prende le mosse da una nota incisione del Bramante. Inoltre il san Matteo, nella prima versione del dipinto, era seduto in alto mentre nella versione finale è abbattuto al suolo e qui, in primo piano a destra e a sinistra, vediamo due nudi di chiara evocazione dell’antico. Penso al Galata morente dei Musei Capitolini oppure al Gladiatore morente del Louvre. L’estrema semplificazione della versione finale mostra la scelta del Merisi di un’estrema drammatizzazione del racconto.
Diverso il segno delle modifiche dell’altra scena, la Vocazione di San Matteo, dove la prima versione del dipinto non prevedeva la presenza, a fianco di Cristo, di san Pietro, come prova la radiografia dove la figura del santo che rappresenta la Chiesa si sovrappone a quella, prima isolata, del Cristo stesso. I due grandi dipinti pongono inoltre il problema delle luci e della pittura in studio di Caravaggio. Nella sua biografia del Merisi, Joachim von Sandrart (ante 1658) scrive: «Per riuscire (Caravaggio) ad esprimere in modo completo il rilievo e lo stacco naturale, aveva cura di servirsi di locali a volta scuri, o di altre stanze senza lume che ricevevano una piccola luce dall’alto, in modo che tale luce non venisse dispersa da altre sorgenti luminose e che le ombre risultassero più vigorose, al fine di ottenere un rilievo più forte». E Giovanni Pietro Bellori nelle sue Vite de’ pittori (1672): «Facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi... (e) non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna d’una camera richiusa, pigliando il lume dall’alto, che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza con vehemenza di chiaro e di oscuro».
Se a queste testimonianze aggiungiamo la notizie, che apprendiamo dai documenti, che Caravaggio sfonda parte del piano di un pavimento appunto per fare giungere luce dall’alto e magari indirizzarla, si è visto, con uno specchio grande, possiamo ricostruire il processo di lavorazione dei dipinti: luce tagliente, uno specchio per riflettere i raggi all’interno, composizione della scena per singole parti.
Caravaggio, nel dipinto centrale della cappella Contarelli, aveva proposto un angelo accanto al santo seduto in primo piano e con i piedi sporchi; lo schema era quello di un dipinto di Simone Peterzano per l’abside della certosa di Garegnano (1578-1582) con ogni probabilità schizzato a memoria dal Merisi. Com’è noto il dipinto di Caravaggio viene rifiutato dalla committenza. Andrà distrutto durante il secondo conflitto mondiale. Della seconda versione dipinta dal Caravaggio (1602) possiamo analizzare i segni della composizione lasciati sulla superficie del colore fresco, ben visibili a luce radente, segni che testimoniano la diversa posizione del corpo del santo e l’esistenza di una sua gamba poi rimossa, come scompaiono nella versione finale anche le gambe dell’angelo. Insomma Caravaggio progetta, disegna, modifica ascoltando le richieste della committenza e scegliendo nuove strade.
Ma quelle luci, quelle luci dall’alto, quel lavorare negli spazi oscuri da dove hanno origine? Scrive Zuccari: «Come aveva chiarito nel 1910 Lionello Venturi (che ha sempre sostenuto la tesi del soggiorno lagunare negata da Roberto Longhi), nelle opere di Caravaggio sono evidenti alcuni caratteri stilistici di ascendenza veneziana e, specialmente in quelle giovanili, una conoscenza dei modelli giorgioneschi. D’altronde ciò si verifica anche nella produzione matura dove egli sembra rifarsi alla pittura di Tintoretto, con la quale condivide l’identità del ruolo funzionale e quello simbolico della luce».
Caravaggio quindi deve essere stato attento, a Venezia, alle pitture della Scuola di San Rocco, ad esempio alla grandiosa Crocifissione, dove si confronta la luce divina, quella dello sconvolgimento celeste, e quelle naturali che affiorano a destra al fondo. E il Merisi deve avere meditato sull’Ultima Cena del Tintoretto (1595) a San Giorgio Maggiore a Venezia dove ancora una volta luci diverse si confrontano: quella della lampada in alto che ritaglia i profili delle forme angeliche e quella del Cristo che illumina la mensa e crea le aureole degli apostoli.
Un bel volume di Rossella Vodret (Caravaggio. 1571-1610, Silvana, 2021) pone, fra l’altro, il problema delle copie da Caravaggio, come del resto Barbara Savina nel volume di Vittorio Sgarbi Ecce Caravaggio (La nave di Teseo, 2021), ma riflette soprattutto sulle repliche di Caravaggio. La studiosa mette a confronto il San Giovanni Battista dei Musei Capitolini a Roma e quello della Galleria Doria Pamphilj, quest’ultimo copia del precedente, mentre ritiene autentiche le due le versioni del Ragazzo morso da un ramarro della collezione Longhi e della National Gallery di Londra. Zuccari invece non ritiene autografo proprio il dipinto in collezione Longhi.
Ma che cosa vuole dire fare copie in questi anni? Il cardinale del Monte ne chiedeva proprio a Caravaggio, sicuramente di opere ormai vendute; ma come si giudicavano le copie al tempo del Merisi? Molti documenti pubblicati da Macioce provano che realizzare copie da Caravaggio, e se ne facevano a decine da artisti più o meno raffinati, voleva dire diminuire il valore dell’originale. L’opposto di quanto oggi noi potremmo ritenere. Certo è che di molti dipinti di Caravaggio esistono copie antiche spesso ingannevoli, perché probabilmente opera di amici pittori o forse, in alcuni casi, con l’intervento dello stesso maestro. Copie quindi come testimonianza del consenso, potremmo dire anche della fortuna critica di un dipinto.
Ma è possibile che ancora oggi, dopo la piccola Medusa, si scopra un Caravaggio inedito di grande qualità? La storia dell’Ecce Homo ora nella collezione Pérez de Castro Méndez a Madrid ha visto il confronto tra mercanti di mezza Europa. Posto in vendita per 1.500 euro, questo Ecce Homo, diventato immediatamente oggetto di offerte sempre più alte di alcuni importanti galleristi, viene subito ritirato dal mercato. È un dipinto di alta qualità assegnato all’artista anche da Sgarbi e che Zuccari colloca nel periodo napoletano del pittore. Ne sono note copie di minore qualità.
Per concludere: abbiamo considerato una parte delle recenti ricerche su Caravaggio attraverso tre libri – una tradizionale monografia sull’artista, quella di Rossella Vodret; un volume di documenti imprescindibile per ogni studio futuro su Caravaggio, quello di Macioce; un volume che disegna le nuove prospettive della più raffinata e attenta indagine filologica, storica e iconologica, quello di Alessandro Zuccari. Lo studio dell’opera di caravaggio continua a riservare sorprese straordinarie.