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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Intervista a Boris Nikitin

Al centro di Sul morire, monologo del regista e autore svizzero Boris Nikitin, ci sono la malattia del padre, prigioniero della Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), e le sue aperte riflessioni sul ricorso al suicidio assistito, espresse in diversi testamenti biologici: poter scegliere quando uscire di scena, per non dover combattere per una vita che non gli sembrava più degna di essere vissuta.
Nikitin collega la storia del coming out del padre con il suo coming out da omosessuale vent’anni fa. Tutto ciò che gli serve è un palcoscenico vuoto, una sedia e il testo da lui stesso scritto. In questa cornice scarna, l’autore sviluppa una serata di teatro, radicale nella sua intimità, su cosa significhi osare, rivelarsi al pubblico. Sul morire è un’opera teatrale sullo sguardo degli altri e sull’importanza di rivelare la propria vulnerabilità. Alla fine non è stato necessario ricorrere all’eutanasia: il padre di Boris Nikitin è morto a causa della sua malattia.
Quali temi mette al centro della sua ricerca teatrale?
«Tanti, non è facile rispondere. Un osservatore esterno probabilmente direbbe che da 15 anni mi occupo ossessivamente di come le realtà e le identità vengono rappresentate e, quindi, allo stesso tempo, “costruite”. Un altro tema ricorrente è il rapporto tra documentario e propaganda; e l’impossibilità di poterli distinguere l’uno dall’altra».
Quando ha iniziato a riflettere su questi temi?
«Sono sempre stato affascinato da come veniamo formati, modellati, educati, dal modo in cui viene rappresentata la realtà. Nel corso della vita, sviluppiamo visioni personali del mondo e di noi stessi, visioni esse stesse modellate da immagini e narrazioni, da leggi e norme che ci accompagnano fin dall’inizio. Sembrano permanenti, indispensabili. Ma sono finzioni; fondali che appaiono più solidi di quanto non siano in realtà. Gli umani li hanno creati a un certo punto, gli umani possono anche distruggerli. Forse è per questo che negli ultimi anni mi sono sempre più interessato al corpo e alla sua vulnerabilità e mortalità. Sono qualcosa di molto concreto e reale. C’è una grande libertà paradossale in questo».
Come è arrivato al teatro documentario e quali responsabilità comporta questa scelta?
«Ho sempre avuto una visione piuttosto scettica della forma documentaristica, di cui diffido. Una posizione che potrebbe essere intesa come una forma di responsabilità. In un manifesto scritto nel 2008 per il mio lavoro Imitation of Life, mi riferisco al documentario come alla più alta forma di teatro dell’illusione. La realtà è qualcosa di molto complesso e il documentario tende a semplificarla e a ridurla a formule di più facile comprensione. Di qui la tendenza al didascalico. Nei miei lavori ho sempre cercato di complicare il documentario, di confonderlo, di incastrarlo in contraddizioni poetiche. Il teatro per me è uno spazio per giocare con la realtà, e l’autocontraddizione è l’unica agenda ideologica che voglio difendere come artista».
Sollecitare pensiero e riflessione critica attraverso l’oscillazione tra finzione e realtà: è questo che le interessa?
«So che sembra un luogo comune, ma cerco di fare cose che interessano prima di tutto me stesso. È il privilegio dell’arte. Il teatro è per me un apparato con cui cerco di capire il mondo, giocandoci».
In «Sul morire» sfonda il muro del silenzio: cosa significa rendere pubbliche scelte private?
«Significa rendersi vulnerabili. Le persone di solito rimangono in silenzio perché temono le conseguenze. Il silenzio è una protezione. Romperlo significa lasciare la propria comfort zone. Mi piace definirla una scommessa: scommetto che il mio interlocutore saprà fare fronte a quello che gli dico. In un certo senso punto sulla sua umanità – di cui non so se è provvisto. Il coming out è un atto che eleva l’altra persona. Questo è il momento utopico che mi interessa. Quando mio padre mi ha parlato del suo desiderio di morire, ha cambiato radicalmente il nostro rapporto. All’improvviso si è creata un’intimità che prima sarebbe stata impossibile nel gioco di ruolo genitore-figlio. È allora che ho capito che la vulnerabilità è un’abilità rivoluzionaria».
Mostrare la propria vulnerabilità induce a fare altrettanto? Qualche spettatore le ha parlato della sua esperienza?
«Sì, in realtà succede molto spesso. Molti spettatori vivono una serata emozionante e commovente. Nessuno se lo aspetta davvero, e penso che la maggior parte di loro ne sia felice. Mi piace sempre lo scambio con il pubblico».
Affrontando il tema della mortalità, è inevitabile pensare alla propria fine...
«La mia morte è per me un pensiero astratto. Ma sono curioso di vedere cosa succederà quando sarà il momento. Spero non accada troppo bruscamente».
Lei ha anche origini ucraine. Come vive la guerra in corso?
«Cosa posso dire? Per l’Ucraina, questa guerra è una catastrofe. Ma anche per la Russia e l’Europa. Quello che mi preoccupa sin dall’inizio è come – in modo quasi sfacciato – sia stupefacente come non solo questo conflitto, ma anche tutte le premonizioni degli ultimi anni – per esempio, il risorgere del populismo fascista autoritario —, coincidano con la scomparsa degli ultimi testimoni della Seconda guerra mondiale. Questa forma di aggressiva sentimentalizzazione narcisistica del patrimonio storico è possibile solo perché coloro che potrebbero raccontare com’era veramente non ci sono più. Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato. Ora è qui, ed è reale. Dovremmo farne memoria».
A Venezia porterà un altro suo lavoro, «Hamlet». Anche qui il protagonista mette a nudo sé stesso, il proprio corpo, la propria biografia...
«Per me Hamlet è, con Sul morire, una delle mie creazioni più importanti. In questo lavoro ho potuto condensare tutte le mie idee e visioni dei dieci anni precedenti. La performance è un ritratto della musicista e performer electro-punk Julia*n Meding. Julia*n è una personalità molto speciale. L’idea di fare un Amleto con questo interprete è maturata a lungo nella mia testa. È una serata su Julia*n ma allo stesso tempo su Amleto. È una serata sulla realtà che va oltre la realtà. È il documentario sulla droga. È un’opera di cui sono orgoglioso ancora oggi, a quasi sette anni dal suo debutto».