La Stampa, 13 aprile 2023
Come fanno i marinai, a Genova
Genova. Cristina l’ha fatto per scappare da una delusione d’amore. Luigi perché sognava le avventure e i mari del Sud. Marianna si è imbarcata appena in tempo «prima che fallisse la fabbrica di frigoriferi dove lavoravo. Sono una delle poche ad aver preso la liquidazione». Per ascoltare le loro storie bisogna andare alla mensa di via Albertazzi, di fronte al terminal traghetti, a pochi passi dalla trattoria di don Gallo. Ottimo minestrone, un grande quadro dedicato a Guido Rossa, i modellini delle navi che hanno fatto la storia del porto. I marittimi italiani sono 38 mila: «Questo dicono le cifre ufficiali», sottolinea con qualche diffidenza Luciano Rotella della Filt Cgil. La realtà ufficiosa è infatti un intrico di leggi, regolamenti, contratti ed etnie diverse. Incrostazioni antiche di dure battaglie tra armatori ed equipaggi. Il risultato è che oggi non è facilissimo sapere quanti navigano e di quale nazionalità. Quel che è certo è che ogni sei, sette mesi il marittimo italiano sbarca e viene licenziato: prende la liquidazione e con quella attende la prossima chiamata. Andrea naviga da più di vent’anni: «Quando ho cominciato a chi ci diceva che guadagnavamo bene rispondevo che avevo una vita precaria: ogni sbarco un licenziamento. Adesso anche a terra sono precari e tornano a considerarci dei privilegiati».
Ma come fanno i marinai? Difficile da capire. Dividono il mondo e la loro vita in due parti: «Ho gli amici di terra e quelli di mare», confessa Cristina. «Sai che cosa diceva Platone? Che ci sono i vivi, i morti e i naviganti», spiega Andrea. Da 25 anni lavora sui traghetti nel Mediterraneo. Qual è il tuo nome? «Chiamatemi Ismaele». Melville sarebbe orgoglioso della citazione del suo lettore-magazziniere. Andrea si è laureato in filosofia «con una tesi sui nomi di Dio in Niccolò Cusano». Pertinente... «Sì, non c’entra nulla con il resto della mia vita ma con la filosofia non riuscivo a vivere». Meglio lavare i piatti sulla rotta Genova-Porto Torres: «Allora pagavano bene. Non scendevi mai a terra se non per telefonare. Non c’erano i cellulari. Sul molo c’era la cabina con il gettone». Come si fa a sopportare una vita del genere per oltre vent’anni? «Ci si ammala. Sulle navi la chiamano “malattia del ferro”. Se non scendi dopo due anni di lavoro vuol dire che non smetterai più. La socialità e gli affetti diventano difficili. Gli amici di terra vanno coltivati con grande pazienza, come le piantine nel deserto. Altrimenti la terra ti rifiuta e per te diventa sempre più difficile da capire. Così ti adatti a lavorare per sette mesi senza scendere mai. E poi ad aspettare il prossimo imbarco. Una vita trascorsa a navigare a vista».
Cristina non ci voleva credere: «Non pensavo che quella sarebbe diventata la mia vita. Ero commessa in un supermercato. Guadagnavo un milione e duecento mila lire al mese. La delusione d’amore era stata forte, dolorosa. Mi era diventato insopportabile continuare nella normalità di allora. Mi sono imbarcata per reazione, per cambiare. Facevo la piccola di camera, il grado più basso della scala gerarchica di bordo. Lavavo i piatti e guadagnavo tre milioni al mese, il doppio di prima. Oggi mi occupo dell’assistenza ai passeggeri. La mia vita è migliorata. Ho diritto a una cabina singola». Quanto è importante? «Eh, dopo un po’ è importantissimo. Sulla nave si svolge tutta la tua vita, proprio tutta, inevitabilmente. Condividere per sette mesi la stessa cabina con una collega non è semplicissimo. E poi, diciamola: non tutti sono eterosessuali come me».
La verità è che nella vita del marittimo la famiglia, i figli sono spesso una bestemmia. «Sono nonno da otto mesi. Non immagini la gioia. Ma la devo dosare, non ci devi pensare. Ho tre figli. Sai quanti compleanni mi sono perso? Io sono di Pozzuoli. Magari passavo davanti alla costa in quei giorni». Normale che Augusto, 61 anni, conti il tempo che manca alla pensione: «Ci vogliono ancora sei anni. Sulla nave sono responsabile del ristorante ma non mi danno la qualifica. Sono ancora garzone di camera. Dovrei essere da tempo cameriere. Nei mesi che lavoro guadagno 2.000 euro. Poi scendo a terra e mi mangio la liquidazione aspettando un nuovo imbarco». «C’è un rapporto strano tra marittimi e armatori», considera Andrea. Perché «quando navighi non vedi l’ora di scendere a terra. Poi dopo qualche settimana speri che la compagnia ti telefoni per tornare a bordo».
Chi non ha più questi problemi è Luigi, 51 anni, da 32 in mare, prima sulle grandi rotte oceaniche, oggi sui rimorchiatori del porto. «Mi sono imbarcato a 19 anni. Sognavo i viaggi esotici e li ho avuti. Lavoravo sui cargo, facevamo il giro del mondo. Mesi senza vedere terra. Conoscevamo paesi lontani e avevamo buone paghe». La noia? «La ammazzavo componendo canzoni». Le avventure? «Anche quelle non mancavano. Chi era sposato diceva a casa che il viaggio durava cinque mesi. Invece durava quattro e lui si fermava un mese da qualche parte nel mondo». «Cose che succedono anche a bordo», racconta Cristina. «Solo che a bordo qualcuno che fa la spia si trova sempre. Così alla fine dei viaggi capitava che le mogli prendessero i figli e salissero tutti sulla nave a trovare il marito. Adesso, dopo il Covid, gli estranei non possono più salire a bordo. Per ragioni di sicurezza».
La sicurezza che oggi preoccupa Luigi è un’altra, è quella del lavoro. «Ormai da anni sono sui rimorchiatori. Si lavora con qualsiasi tempo e in qualsiasi condizione di mare. E c’è gente di sessant’anni che continua a saltare dal rimorchiatore al molo. Per non parlare dei piloti che affiancano lo scafo delle navi e si arrampicano sulla scala di corda fino al portellone di ingresso. Se cadi rischi la vita. Ma non c’è un limite di età per svolgere queste mansioni».
Marianna è sbarcata da qualche giorno ed è felice: «Finalmente sono riuscita a trascorrere a terra una festa comandata, la Pasqua, insieme a mia sorella. Quando mi hanno comunicato i turni non ci credevo. È successo perché ci hanno dato il cambio i filippini. Li pagano due ero l’ora, sai com’è». Hai già pensato che cosa farai quando andrai in pensione? «Certo che ci ho pensato. Venderò la mia casa, quella che ho comperato vicino a Genova con i soldi delle mance quando lavoravo al ristorante della nave. Un piccolo gruzzolo e poi il mutuo». La venderai e che cosa comprerai? «Sono già d’accordo con due mie amiche: una casa in Madagascar. Abbiamo fatto i conti. Con 600 euro al mese riesci a vivere bene. Poi, sole, mare, relax e divertimento. Io non ho famiglia, non ho figli. Perché no?».