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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Biden e Trump sono andidati deboli. Ma i due partiti possono sostituirli?

In che stato è «il leader del mondo libero»? L’ultimo capitombolo di Joe Biden viene trattato con imbarazzo da parte di quei media che cercano di proteggerlo. Ma è chiaro che la salute psico-fisica del presidente sarà un terreno di attacco della destra in campagna elettorale. In America la trasparenza sulla salute dei leader è diventata un obbligo. L’autocensura ha dei limiti. Poi c’è il disastro Kamala Harris: la vice fa notizia soprattutto per le risate sgangherate con cui accompagna discorsi incomprensibili. La differenza di età non la rende più brillante del capo.
Sul versante opposto c’è l’inquietante vantaggio di Donald Trump nei sondaggi in casa repubblicana. Ron DeSantis, malgrado i successi economici al governo della Florida, arranca dietro l’ex presidente, al quale buona parte della base repubblicana perdona l’orrore dell’assalto al Campidoglio. In quanto ai guai giudiziari, finché vengono da una magistratura politicizzata confermano per i seguaci di Trump la teoria della persecuzione.
È un’America in crisi di leadership proprio quando la sua guida è essenziale per tenere unite e determinate le alleanze fra democrazie, in Occidente e in Oriente. Vladimir Putin e Xi Jinping godono di fronte alle immagini di Biden che inciampa e casca. Le speculazioni si allargano agli alleati. Dall’Europa al Giappone, ogni governo amico dell’America si chiede se nel gennaio 2025 alla Casa Bianca ci sarà un leader sano, valido, e fedele alle coalizioni fra democrazie.
Un sussulto da parte dei due establishment democratico e repubblicano, per imprimere una svolta nelle candidature, sarebbe nell’interesse dell’America e del mondo. È ancora possibile?
Il ruolo dei tecnocrati
Se non soffia il panico
a Washington è perché c’è fiducia nella «cupola» tecnocratica
A sinistra per ora c’è una candidatura di disturbo: Robert Kennedy Jr (il figlio di Bob assassinato nel 1968), un ultrà dell’ambientalismo anti-vax, ripudiato dalla sua famiglia e dal partito; ma con un sorprendente 19% di consensi in alcuni sondaggi. Kennedy non ha chances ma una maggioranza dei democratici gradirebbe un’alternativa a Biden.
A destra si sussurra di un piano di alcuni grandi finanziatori: affollare le candidature nelle primarie, ma con un accordo segreto di desistenza fra tutti i candidati anti-Trump in favore dell’unico che risulterà capace di battere The Donald. È il piano che mancò nel 2016. Resta da vedere se questo establishment repubblicano conti ancora o se Trump abbia completato la metamorfosi del Grand Old Party in una forza populista, anti-élite e anti-sistema. Infine c’è il movimento No Label («Nessuna etichetta») che lavora per una candidatura indipendente; nella storia degli Stati Uniti i terzi candidati hanno fatto perdere qualcuno ma non hanno mai vinto.
Se non soffia un vento di panico a Washington, una spiegazione la trovate in una serie televisiva, The Diplomat. È la storia di un’ambasciatrice Usa a Londra, «allevata» per diventare la vice di un presidente anziano che perde colpi. Attorno al vecchio presidente si vede una squadra che lo dirige, lo guida, lo corregge, lo sostituisce. È la teoria del Deep State («Stato profondo»), depurata dalla dimensione complottista e paranoica che l’entourage di Trump dà all’espressione. È l’idea che l’America ha una «cupola» tecnocratica di altissimo livello: il National Security Council della Casa Bianca, il Pentagono, il dipartimento di Stato, l’intelligence, i think tank e i network informali con i giganti Big Tech. Questo è il vero governo, in parte è ufficiale, agisce secondo il dettato costituzionale, coinvolge alcune élite del Congresso; in parte agisce dietro le quinte e «commissaria» la democrazia.
Si può essere rassicurati da questi elementi di solidità e continuità. Sarebbe più sano avere nuove generazioni che scendono in campo a servire il Paese. Qui si tocca un altro tasto dolente. Scuola e università sono zone di guerra tra ideologie, anziché il luogo dove si forma uno spirito civico. Solo il 38% degli americani oggi si dicono fieri di esserlo. Pochi sono motivati a servire un Paese che si considera un condensato di tutte le ingiustizie e le patologie della terra.