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 2023  giugno 03 Sabato calendario

I 50 anni dell’Elfo

Con colpevole ritardo, siamo saliti sull’ultimo treno utile (almeno per ora) per assistere al rutilante show del Teatro dell’Elfo di Milano, che quest’anno festeggia il mezzo secolo di vita riproponendo una delle sue più riuscite commedie: Il vizio dell’arte di Alan Bennett.
Ormai un classico di repertorio, lo spettacolo del 2014 (già ripreso in diverse stagioni successive), è diretto da Francesco Frongia e Ferdinando Bruni, anche in scena coi sodali Elio De Capitani e Ida Marinelli: sono “una squadra fortissimi”, probabilmente i più bravi in Italia ad allestire commedie. La firma la mette il sornione e geniale Bennett, il cui humour sottile si coglie sin nel programma di sala (stralcio dell’introduzione alla pièce edita da Adelphi): per imbastire l’incontro tra il poeta Wystan Hugh Auden e il compositore Benjamin Britten, di non facile resa drammaturgica, l’autore si è dovuto inventare un dispositivo metateatrale, con molti personaggi di contorno e altrettanti “spiegoni” nella trama. Dopotutto, “se uno come Ibsen non riusciva a spiegare le cose, figuriamoci io”.
Il gioco è di scatole cinesi, una recita nella recita: su un palco in disordine e in allestimento, una sgangherata compagnia sta provando un nuovo testo, ispirato alla Tempesta di Shakespeare, con protagonisti appunto Auden (1907-1973) e Britten (1913-1976). Oltre ai due primattori che li interpretano – i sempre eccellenti e spassosi Bruni e De Capitani –, sono presenti anche l’aiuto regista (la bravissima Marinelli), il biografo ufficiale dei due artisti (strepitoso Umberto Petranca), l’autore dell’opera, un musicista, un assistente e un ragazzo di vita.
Auden e Britten, che da giovani avevano lavorato insieme e flirtato, si ritrovano all’inizio dei Settanta, oltre 30 anni dopo il loro sodalizio: anziani, acciaccati e smemorati, parlano del “vizio dell’arte”, dei fidanzati, del tempo passato, dei successi e degli insuccessi. Soprattutto discutono di Morte a Venezia: Britten vorrebbe adattarla per un melodramma edulcorato, mentre Auden, ex suocero di Thomas Mann, disapprova; per lui l’innocente è il vecchio pederasta Aschenbach e il seduttore diabolico il 14enne Tadzio… Il set delle chiacchiere è Oxford, ma lo slang non è certo oxfordiano, tra “pompini, giochi gay, peni e acerbi prostituti”: “La gente dirà: ‘Dov’è la poesia?’”. O forse “gli artisti hanno davvero ben poco di umano”, solo dalla cintola in giù sono in grado di amare: quella “checca sporcacciona” di Auden, ad esempio, fa pipì nel lavandino – dev’essere una mania dei poeti; anche di Montale si vociferava così –; è tirchio, puzzolente, paga i marchettari 20enni per prestazioni a domicilio… I suoi versi – per sua stessa ammissione – non hanno mai “salvato” nessuno, tantomeno gli ebrei dai nazisti, né fatto terminare la guerra. “L’arte alla fine non vale una cicca: sono troppo artificiose le mie poesie”.
L’orchestrazione è ottima e l’ensemble affiatato, divertito e divertente, anche se la commedia è un poco “all’italiana”, ovvero col veleno nella coda e l’amaro in bocca: l’arte si regge sugli scarti, il piscio, la manovalanza, le comparse, gli escort, gli attori che non ce l’hanno fatta, gli scrittori falliti, i guitti lasciati fuori, indietro, dimenticati. L’arte cammina sui vuoti, sulle crepe, sui fossi, su quello che non c’è: “Come una buca in cui si inciampa, dopodiché si continua a zoppicare” (© Elfriede Jelinek, premio Nobel).