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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Biografia di Louise Merywether

Nel 1970, come una scheggia incandescente emersa dal fuoco del passato, apparve negli Stati Uniti un romanzo breve eppure vivo come pochi altri: imprendibile, luminoso. Ambientato nella Harlem degli anni Trenta, nel corso della Grande Depressione, raccontava un anno nella vita di una dodicenne di nome Francie, una ragazzina afroamericana che narrava in prima persona gli affanni dei genitori, le scorribande con le amiche, i problemi dei fratelli ma in realtà tutta la vita di una comunità, di una parte degli Stati Uniti, di uno spicchio emblematico di nazione nera. Louise Meriwether era all’esordio. E che esordio. Il libro andò bene in termini di vendite, ma fece storcere qualche naso. Forse era poco edificante, o troppo sincero. Eppure quale modo migliore per riconoscere uno scrittore vero se non la capacità di raccontare senza paraocchi il mondo intorno? Meriwether non aveva remore e la sua protagonista ne ha ancora meno. D’altra parte perché indorare la pillola, perché rendere più facile una storia difficile? I genitori di Meriwether erano partiti dal sud nel corso della Great Migration, l’ondata migratoria che portò qualcosa come sei milioni di afroamericani a partire dal sud razzista per cercare fortuna, lavoro, sicurezza nelle città del nord. Ma anche ostilità. Dalla South Carolina i genitori si erano trasferiti in una cittadina sullo Hudson a una sessantina di chilometri da New York. Lì, nel 1923, nacque Louise, terza di cinque figli e unica femmina. Il padre faceva il bidello, la madre faceva le pulizie nelle case altrui. Quando arrivò la Grande Depressione, si trasferirono a Brooklyn e poi a Harlem. Circondata da maschi, prese a leggere le cose che piacevano a loro, e forse questo contribuì a darle uno sguardo più brutale sulle cose. Poco sentimentale, molto spregiudicato. Dopo avere finito gli studi, si sposò e si trasferì a Los Angeles, dove negli anni sessanta cominciò a lavorare come cronista e come attivista. Il padre era politicizzato e lei aveva assorbito quel tipo di approccio al mondo. S’iscrisse al Congress of Racial Equity. Intervistò Malcolm X, Muhammad Ali («un ragazzone tanto divertente») e James Baldwin, di cui sarebbe diventata amica.Mettere una distanza e fare la gavetta forse la aiutarono a fare emergere i ricordi del passato. Nel frattempo era diventata la prima story editor afroamericana nella storia di Hollywood e s’era iscritta a un laboratorio di scrittura creativa. Tra i partecipanti c’era anche un poeta che si dichiarò allibito di averla accanto sui banchi ad ascoltare le lezioni di Budd Schulberg: «Che cosa ci faceva lì? Era la più brava di tutti». E invece proprio da lì, dai tanto vituperati banchi di scrittura creativa, prese forma quello che oggi, a distanza di più di cinquant’anni, appare per la prima volta nelle librerie italiane dopo essere assurto, come meritava, a classico moderno nella storia delle lettere americane. Nel frattempo Meriwether divorziò e tornò a New York, dove s’immerse nella comunità afro-americana politica e letteraria. Divenne amica di Maya Angelou, che di lì a poco avrebbe pubblicato un capolavoro come I Know Why the Caged Bird Sings. In quel momento Meriwether diede alle stampe Quando papà dava i numeri, con la prefazione di James Baldwin, un libro farsesco e brillante a partire dal titolo (perché il padre impazzisce sì, ma dietro alla lotteria clandestina di Harlem, che gestisce in segreto raccogliendo i numeri, ossia le giocate, di tutto il quartiere). La famiglia della protagonista vive alla giornata, eppure nella prosa di Meriwether non appare mai l’ombra dell’autocommiserazione. Gli abusi sessuali, le cinghiate paterne, il bullismo violentissimo tra adolescenti, la semplice e spaventosa fame – per nulla metaforica – che attanaglia ogni personaggio: tutto il mondo di Harlem balugina come un caleidoscopio desideroso di vita in cui anche il dolore più profondo passa e va come se non fosse altro che una giornata andata storta. C’è il padre che racimola altri spicci andando a suonare il pianoforte nelle feste private, c’è la madre angosciata dal destino dei figli, c’è il fratello coinvolto in una gang che ha ammazzato un bianco, c’è l’amica che un giorno la copre di attenzioni affettuose e un altro non le rivolge la parola, c’è la Cinesina che si prostituisce («Ci aveva detto che in un modo o nell’altro i bianchi ti fottevano sempre, quindi tanto valeva farli pagare e con l’occasione attaccargli lo scolo»), ci sono tutti i bottegai del quartiere che ogniqualvolta vedono Francie entrare in negozio per fare una commissione per conto della madre la invitano dietro il bancone in tono mellifluo per esplorarla sotto il vestitino e farle uno sconto, c’è il tizio al cinema che le scivola sempre accanto e di nuovo cerca di infilarle la mano nelle mutandine.A ogni passo c’è una botola, un rischio, una minaccia di qualche genere. Eppure Francie è indomita, viva, combattiva. Non si concede mai il lusso di piangersi addosso, pur ammettendo per la nostra commozione che «tutti avevano il diritto di piangere quando venivano presi a cinghiate». Scritto in una girandola di dialoghi, scene, trovate, pensieri e raccontato tutto in presa diretta, nei condomini affollati e invasi dalla polizia, nelle strade brulicanti, Quando papà dava i numeri è diventato un classico moderno che ha influenzato generazioni di scrittori non per forza afroamericani. Zora Neale Hurston, Maya Angelou, Audre Lorde sono scrittrici che da noi faticano a trovare lettori. Sarebbe ora che tutto questo cambiasse, se vogliamo capire il migliore femminismo letterario afroamericano, e sarebbe ora che in Italia qualcuno ascoltasse una voce così fresca. Louise Meriwether ha appena compiuto cent’anni. Nel corso del tempo ha scritto altri romanzi e un mucchio di libri per ragazzi. Nel 2016 a Manhattan è stato istituito il «Louise Meriwether Appreciation Day». Durante la prima ondata della pandemia ha preso il Covid ed è sopravvissuta. «They endure», come recitava un antico capolavoro.