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 2023  giugno 03 Sabato calendario

Tolsotj era un po’ disgraziato

Verdiana Neglia, che un paio di anni fa ha pubblicato, per Mattioli 1885, una raccolta di scritti di Dostoevskij su Pietroburgo che si intitola La città più cupa del mondo, pubblica ora, sempre per Mattioli, una raccolta di scritti di Tolstoj intitolata Patriottismo o pace.Qualche settimana fa, a preannunciare l’uscita di questo libretto, ho messo in rete un pezzo del saggio, sulla guerra tra Russia e Giappone che apre l’antologia, Ravvedetevi!, queste righe:Tutte le argomentazioni antimilitariste possono fare gran poco per fermare la guerra. È come offrire considerazioni eloquenti e persuasive a dei cani da combattimento, insistendo che è più vantaggioso dividere il pezzo di carne per il quale stanno lottando piuttosto che mutilarsi a vicenda e farselo portar via da qualche altro cane di passaggio che non si era neppure unito alla lotta.Un lettore ha commentato: «Come mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti».Ho risposto «Tolstoj lo faceva sempre, era un po’ un disgraziato».E quando, sempre in Ravvedetevi!, ho letto:«Ieri è arrivata la notizia dell’affondamento delle corazzate giapponesi e nelle cosiddette sfere altolocate della nobiltà russa, ricca e intelligente, senza alcun rimorso di coscienza, ci si è rallegrati per la fine di migliaia di vite umane» a me è venuto in mente Kurt Vonnegut, quando ha scritto, in Mattatoio numero 5, il romanzo che ha dedicato al bombardamento di Dresda, del quale è stato involontario protagonista (era a Dresda, prigioniero dei tedeschi):«Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare a un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia.Ho anche detto loro di non lavorare per società che fabbricano congegni in grado di provocare massacri, e di esprimere il loro disprezzo per chi pensa che congegni del genere siano necessari» (la traduzione, di Luigi Brioschi, viene dall’edizione Feltrinelli di Mattatoio numero 5).È stupefacente l’attualità di Tolstoj, è ammirevole la sua testardaggine ed è disarmante la sua semplicità.E quando Tolstoj scrive, in Preghiera per la nipotina Sone?ka (pubblicata nel 1909 sulla rivista Majak, che significa Faro): «Dio ha ordinato agli uomini di fare una cosa: amarsi l’un l’altro. È questo che bisogna imparare a fare» ci viene da chiederci «Come mai, non siamo capaci di farlo? Sembra così semplice».Ho detto spesso che a me piacciono due cose che fanno piangere, la letteratura russa e le partite del Parma, e l’anno scorso, in marzo, ero allo stadio Tardini di Parma, il Parma, tanto per cambiare, perdeva, la mia vicina, una signora di una certa età, molto elegante, cercava un capro espiatorio, se l’è presa con gli arbitri, ha gridato «Da dove venite, dalla Russia? Siete dei delinquenti come loro!».Ecco io, quando penso a questo periodo, un periodo nel quale, in occidente, la parola russo è sinonimo di delinquente, un periodo in cui c’è chi pensa che la cultura russa vada vietata, un periodo in cui essere un russo equivale a una colpa, quando penso così a me viene in mente Chadži-Murat, ultimo romanzo di Tolstoj, uscito postumo, nel 1912, che racconta di un ribelle caucasico che decide di passare ai russi. Il romanzo comincia nella casa di Sado, un ceceno che ospita Chadži-Murat, e il figlio di Sado è un ragazzo di quindici anni che, coi suoi occhi neri come mirtilli, guarda Chadži-Murat come un eroe.Tolstoj, qualche pagina dopo, ci riporta in quel villaggio ceceno dopo un attacco russo.«Sado – scrive Tolstoj – era andato con la famiglia sulle montagne, quando i russi si erano avvicinati al villaggio. Tornato al villaggio, aveva trovato la sua casa distrutta: il tetto era sfondato, e la porta e le colonnine della piccola loggia bruciati, e l’interno tutto sottosopra. Suo figlio, quel bel ragazzino con gli occhi splendenti che guardava entusiasta Chadži-Murat, era stato portato morto in moschea su un cavallo coperto da un mantello di feltro. Era stato colpito da una baionettata alla schiena. La donna austera che aveva servito Chadži-Murat quando era stato lì, ospite, adesso, con la camicia strappata sul petto a scoprirle il vecchio seno avvizzito, coi capelli sciolti, stava di fronte al figlio e si graffiava a sangue il volto e non smetteva di piangere a dirotto. Sado, con pala e piccone, era uscito con i parenti a scavare la tomba al figlio. I pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavan gli adulti. La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea, e il mullah con i suoi aiutanti la stava pulendo. Gli anziani si erano raccolti sulla piazza e, seduti sui talloni, ragionavano sulla situazione. Di odio per i russi nessuno parlava. Il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo tali di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione».Viktor Sklovskij ha scritto, cento anni fa, che i colori della bandiera dell’arte non possono mai riflettere i colori della bandiera che sventola sulla cittadella del potere.L’opera di questo grande russo che si chiama Lev Tolstoj dimostra, in un modo che mi sembra commovente, quella convinzione di Šklovskij e mi dispiace per chi si oppone alla diffusione delle opere di Tolstoj, in quanto russo, perché queste opere, non c’è niente da fare, vincono loro, e continueranno ancora per molto a farci vedere come siam fatti male.