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 2023  giugno 02 Venerdì calendario

Su "L’età del male" di Deepti Kapoor (Einaudi)



Lo scorso aprile, durante una trasferta medica, tre sicari hanno freddato in diretta tv un ex parlamentare dell’Uttar Pradesh e il fratello, ergastolani per sequestro di persona e indagati per omicidio ed estorsione. Due giorni prima, il figlio del gangster, uno studente di diritto accusato di omicidio, era stato ucciso in uno scontro con la polizia.

Questa è la realtà a cui attinge con nerbo e precisione la scrittrice indiana Deepti Kapoor nel trascinante L’età del male (Einaudi Stile libero), ovvero 634 pagine imbevute nell’adrenalina di un viaggio nel sottobosco del crimine, nella politica corrotta e tra le speranze disattese dei nullatenenti del nord dell’India. Ma è anche un’escursione antropologico nella “New India” di vent’anni fa, epoca in cui è ambientato il primo tomo di un’attesissima trilogia.


L’autrice quarantaduenne lo ha ammesso: vivendo in ristrettezze economiche come insegnante di yoga prima a Goa e poi a Lisbona, voleva scrivere un romanzo-masala, spargendo una miriade di ingredienti come si fa nella cucina indiana per cucinare un bestseller appetitoso. C’è riuscita: traduzione in 15 lingue e un anticipo che pare si aggiri tra i 4 e i 6 milioni di dollari, compresi i diritti già venduti per una serie su FX.


Non disturba che siano subito riconoscibili alcuni temi ricorrenti. La critica anglosassone, pigra nell’accomunare stereotipi, lo ha paragonato al Padrino di Mario Puzo, poiché si tratta anche di una lotta tra padri e figli di famiglie malavitose. Ma ci sono ispirazioni autoctone più calzanti nella cultura mainstream che racconta l’India all’estero.


Questo romanzo inizia con una scena che pare presa da La tigre bianca di Aravind Adiga, la storia di un autista cui viene chiesto di accollarsi le colpe di un incidente. Anche nell’“Età del male Ajay si trova al volante di una Mercedes che ha falciato la vita di cinque senzatetto. Ecco la lucente metafora della tracotanza milionaria e dell’insignificanza delle vite dei miserabili: l’auto di lusso che frantuma le vite degli straccioni e il vero killer la fa franca, in quanto ricco. Ora Kapoor ci trasporta nel passato a rivisitare l’infanzia rurale di Ajay nel profondo Uttar Pradesh. Qui siamo invece nel toccante Lion, film ispirato al memoriale di Saroo Brierly. Benvenuti nell’India che fa paura, quella in cui un padre viene massacrato perché la sua capra s’è mangiata due frutti nel campo del vicino, in cui la figlia viene stuprata e il figlio venduto come schiavo e messo al servizio di una famiglia tra le valli d’alta quota nell’Himachal Pradesh, fino all’incontro di Ajay, ora cameriere in un bar nell’Himalaya, con un giovane carismatico di Delhi, Sunny Wadia.


Ecco la fase Slumdog Millionaire. A Delhi, il ragazzo povero inizia la scalata verso la redenzione, covando una vendetta. Sparatorie, inseguimenti, ossa spezzate con colpi di arti marziali, montagne di coca, fiumi di droghe, party, sbronze e doposbronze e un piano che lievita a fuoco lento. Ma che lo trasformerà in capro espiatorio.
Troppo Netflix? È una delle chiavi della riuscita di questo romanzo. Ma non l’unica. C’è anche una scrittura, sulla lama del rasoio tra letteratura e narrativa di genere (altra scelta consapevole di Kapoor), che agguanta per il bavero il lettore e non lo lascia andare. Siamo nell’ambito della tecnica del bestseller, tra Dan Brown, Paulo Coelho e lo Shantaram di Gregory David Roberts. Ma meglio. Meglio perché non c’è, nel linguaggio di quest’autrice, l’autocompiacimento dell’affabulazione fumettistica che ha fatto la fortuna di un certo stile esotizzante dei romanzi ambientati in India o nel Sud globale. Qui c’è l’esperienza personale di una giovane indiana borghese che certe cose le ha vissute di persona: non ha bisogno di pennellarle di glamour autoglorificante, non le strumentalizza con vittimizzazioni o mal riposti eroismi mascolini.


Spruzzate d’introspezione rialzano i toni: «Siamo cresciuti guardando Beverly Hills 90210. Trattavamo con gentilezza i servitori ma erano sempre servitori. Funzionava così. Più di ogni altra cosa volevamo vivere come in Occidente. Non pensavamo mai alle conseguenze, alla miseria su cui, nel contesto indiano, erano costruiti i nostri desideri».


Quanta lucidità e capacità di narrare con un linguaggio semplice, avaro di aggettivi, con frasi brevi: soggetto, predicato verbale, complemento oggetto, punto. Poche, rapide descrizioni per dare vita a personaggi come Ajay e Sunny, ma soprattutto come quello più autobiografico, Neda Kapur, la reporter che s’invaghisce del figlio del boss criminale, che diventa la Eco di questo gangster Narciso e viene avviluppata in una ragnatela da cui sarà complicato uscire, pagando in un certo senso un prezzo di sangue per questa relazione pericolosa.
Personaggi non originalissimi? La giornalista tormentata; il figlio del boss un po’ playboy, un po’ leader, che vuole emanciparsi dal crimine; il ragazzo troppo silenzioso, povero, ma buono? Ma che importa? Funzionano. Interessano. Ipnotizzano. E soprattutto raccontano un contesto sociale, criminale, politico degli eccessi dell’India nella post-liberalizzazione, in cui enormi fortune sono nate dal nulla con la speculazione edilizia, corruzione e concussione.


Fili narrativi per tessere il canovaccio su cui è dipinto un mondo in trasformazione, quello dell’India che continua il suo inurbamento, dove le marche del made in Italy sono simboli di status per i nouveau riche, dove gli aristocratici decaduti sono «ricchi di beni, poveri di contanti» e si alleano con la nuova politica trasformando «i forti fatiscenti di famiglia in hotel di lusso per le élite del mondo». E dove sorge un nuovo orgoglio di rivalsa, come grida Sunny in uno sfogo intossicato: «Credete che l’India sia povera? Fatevi un giro in America».
Quest’endoscopia del neoliberismo in salsa indiana racconta come nascono imperi con i liquori, controllando la filiera a partire dalle piantagioni di canna da zucchero, ai zuccherifici, alle distillerie, ai distributori, dall’ingrosso al dettaglio: il genere di monopoli che oggi rendono alcune famiglie indiane le più ricche al mondo.
C’è la mafia delle cave di sabbia per cementare le nuove città, il controllo dei trasporti, dei caselli ai pedaggi e delle infrastrutture, oliando polizia, politici e magistrati, spingendo per le privatizzazioni che danno servizi peggiori, pagati di più di quelli statali.


È un’India del malaffare – riconoscibilissima anche dopo vent’anni – dove chi sfrutta è venerato come un santo, come conclude il giornalista del Delhi Post che si è appena visto cestinare la sua sconvolgente inchiesta su crimine e politica: «Questi uomini sono considerati eroi dalle stesse persone che derubano e a cui distruggono le vite».