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 2023  giugno 02 Venerdì calendario

Intervista a Luca Barbarossa


«La verità è che l’amore è diventato rivoluzionario per come va il mondo. E quindi ha una dignità politica». Chiamatele canzoni d’amore quelle del nuovo album di Luca Barbarossa, La verità sull’amore, ma qui il sentimento non è avulso dal contesto, non è una fuga dalla realtà, semmai è l’esatto contrario. L’ispirazione è arrivata sotto forma di telefonata di Stefano Massini: «Mi ha detto: facciamo uno spettacolo insieme. E poi mi ha fatto leggere La verità, vi prego, sull’amore, di Wystan Hug Auden». Che è diventato anche il titolo dello spettacolo di parole e musica che Massini e il cantautore romano porteranno in giro per l’Italia dall’8 luglio. «L’idea iniziale era usare canzoni già edite, ma poi...».
Poi ci ha scritto un disco.
«Volevo che i brani avessero una vita propria. La mia è un’indagine sull’amore, vissuto in modo diverso di brano in brano».
Lei cosa ha imparato dell’amore?
«Mi ha salvato, tanto quanto la musica. Citando Pavese, è il più potente anestetico che esista in natura, accessibile a tutti, che si può prendere a stomaco pieno e a stomaco vuoto».
Cita anche Guccini: “Ha ragione Francesco quando dice Dio è morto”.
«È una frase di Amore resisti, in cui cerco di raccontare la quotidianità dell’amore».
Altra citazione: Quasimodo, “I soldati piangono di notte”.
«Una poesia di una potenza unica. Ma anche qui, come ne La verità sull’amore, mi svincolo dal testo originale, si tratta di una suggestione».
In questa “verità sull’amore” c’è tanta guerra, c’è tanta amarezza.
«L’amore, lo dice anche Massini, non è vissero felici e contenti: ha più a che vedere con le bollette da pagare che con il castello delle favole. Viviamo in un mondo di orrori, di infanzia negata, di bombardamenti, di visioni catastrofiche, come quelle su un conflitto nucleare o la crisi climatica»
Canta “chi avrebbe mai immaginato che il nemico eravamo noi”. Sta con gli ambientalisti di Ultima Generazione?
«Il loro è un grido irrinunciabile, sacrosanto. E prima di discutere delle modalità della protesta, discuterei dell’immobilismo degli Stati che non sono ancora in grado di dare risposte».
Ha tre figli, la più giovane è adolescente, gli altri poco più che ventenni: è preoccupato per il loro futuro?
«Ho molta fiducia in loro, ma ne ho poca negli adulti. Mi preoccupo perché il mondo non è nelle loro mani, ma di un mondo di anziani che non hanno soluzioni adeguate. Biden si ricandida e ha più di 80 anni».
Con suo figlio Flavio ha scritto un brano. Com’è andata?
«È un bravo pianista, studia musica classica: mi bullizza dal punto di vista musicale. Mi ha portato un giro armonico con accordi raffinatissimi, bellissimi. Stavo scrivendo Per sempre, funzionavano molto bene. Mi ha emozionato, non avrei mai immaginato di scrivere una canzone con mio figlio».
Se seguisse le sue orme?
«Mi andrebbe bene, ma lui sembra più interessato alla teoria, la musicologia. Io gli auguro di portare avanti questa passione indipendentemente da quello che farà».
Trent’anni fa scriveva Le cose da salvare: nell’elenco metteva Berlinguer preso in braccio da Benigni e la pipa di Pertini. Oggi chi citerebbe?
«Oggi ci avrei messo Gino Strada. Non molti altri purtroppo».
A Sanremo nell’88 il suo pezzo raccontava uno stupro: suscitò polemiche, ma oggi non c’è giorno in cui non si parli di violenza.
«Ascoltai a teatro il monologo di Franca Rame sullo stupro, la spedizione punitiva che subì dai fascisti. E provai una profonda vergogna nell’appartenere al genere maschile. Poco dopo scrissi L’amore rubato. Me ne dissero di ogni».
Però arrivò terzo.
«Perché il pubblico come sempre arriva prima. Ma mi dicevano che le canzoni devono “alleggerire”. Durante il Festival arrivò un telegramma di Franca Rame e Dario Fo, diceva “Grazie a nome di milioni di donne». Lo conservo, è più importante di qualsiasi premio».
A proposito di Festival, come uomo Rai, conduttore di Radio 2 Social Club: mai fatto un pensiero al Sanremo del dopo-Amadeus?
«I candidati mi sembrano già parecchi... Forse mi divertirebbe, ma mi pare che l’aria stia tirando dall’altra parte, ammesso che io avessi chance anche prima: al di là della mia appartenenza culturale alla sinistra, non ho mai avuto tessere».
Si sente coinvolto quando il governo parla di “egemonia culturale della sinistra”?
«Trovo mortificante che non si parli di merito, che sembrava una bandiera di questo governo, né di talento. Sembra che artisti e intellettuali vengano sistemati solo per appartenenza politica, che poi è da vedere quanto le etichette siano corrette».
Cioè?
«Credo che un intellettuale o un artista debbano essere scomodi anche per la loro parte politica. Pasolini non era certo uomo di destra, ma per il Partito Comunista è stato una spina nel fianco».
Dopo le elezioni a settembre scrisse “che certa sinistra dovrebbe evitare di strumentalizzare gli avversari politici, deridendoli e associandoli al nazi-fascismo». La pensa ancora così?
«Sì, nonostante nel governo a volte si impegnino a farmi ricredere. Per anni si è stati uniti solo dall’essere contro le destre e Berlusconi, e disuniti su tutto il resto. Ma l’opposizione della sinistra si preannuncia lunghetta e si dovrebbe passare alla proposta politica. Sui diritti, per esempio: in Italia siamo indietro».
Consigli per Elly Schlein?
«Il problema non sono i singoli, ma l’avere un progetto politico condiviso, al di sopra delle ambizioni personali. Io appoggiai i girotondini e Nanni Moretti, c’ero quando disse “Con questi leader non vinceremo mai”. Non riesco a capire come, a fronte di temi forti e importanti, si incassino sempre sconfitte. Ma i temi continuo a condividerli. Come diceva il poeta: “Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”.