La Stampa, 2 giugno 2023
Intervista a Giordano Bruno Guerri
Giordano Bruno Guerri è storico, saggista, uomo di cultura e persona intelligente. Attualmente è presidente del Vittoriale degli italiani. Qui il suo pensiero.
Dice Nicola Lagioia che l’egemonia culturale della destra è un’ossessione della politica, non di chi si occupa di cultura. Esiste o no, questa egemonia?
«È un fatto storico, non si può neppure discutere. Subito dopo la guerra la Dc ha deciso di disinteressarsi della cultura, lasciandola a Togliatti, e rivendicando per sé il controllo di altri fenomeni sociali importanti. Così il Pci si è impossessato della cultura. Gli intellettuali non sono leoni. Sappiamo bene da dove vengono, dal Rinascimento stipendiati da un signore. Lavorano dove si può lavorare».
Quindi?
«Quindi quelli di destra si sono rattrappiti, hanno avuto difficoltà a trovare ruoli nella università, giornali, televisione, radio. Gli altri intanto andavano a gonfie vele. Quindi il sistema ha funzionato da solo. Chi voleva lavorare, anche se non era di sinistra, ha dovuto atteggiarsi come se lo fosse».
Ma nel 1994 è andato al potere un signore che si chiamava Silvio Berlusconi, che per un periodo ha controllato tutta la tv (Mediaset e Rai), Mondadori e addirittura Einaudi. Come si fa a dire: adesso tocca a noi, basta con l’egemonia di sinistra.
«Berlusconi ha fatto tacitamente un accordo come De Gasperi con Togliatti. Lui si è tenuto le televisioni e la cultura di massa. Il resto lo ha lasciato alla sinistra. Non ha mai usato Mondadori o Einaudi a fini politici».
Perché?
«Perché a lui non interessava. Sarebbero stati strumenti formidabili. Anche sotto Berlusconi la cultura alta di destra è rimasta orfana. Pera, Melograni e gli altri professori avevano aderito e poi hanno mollato quando hanno capito che non c’era niente da fare. È un dato indiscutibile che ci sia stata questa egemonia e che duri tuttora, perché il sistema è rimasto lo stesso».
Mi pare che la cultura di destra abbia un problema a rapportarsi con la modernità. Fa convegni su Prezzolini. Perché non c’è uno Zerocalcare, una Murgia, un Fazio, un Saviano di destra?
«È vero. Lo abbiamo detto: perché l’egemonia sta dall’altra parte. L’obiettivo per me non è strappare il potere alla sinistra, col motto adesso arriviamo noi. Ma allargare il campo a voci diverse».
La cultura passa anche per Sanremo, per l’arte astratta, per le serie tv. Lì si plasma l’immaginario. La destra ha qualche idea?
«La destra è per la maggior parte conservatrice, quindi tende a muoversi lentamente. È rimasta indietro».
Al pubblico evidentemente piacciono certi temi, che la destra non bazzica. La destra ha una cultura elitaria, rifugge la massa. È anche un problema di argomenti, allora?
«Fino a un certo punto. Mi sembra che l’orientamento stia cambiando. Stanno nascendo dei nuovi personaggi. Osho, per esempio, è estremamente popolare e non è di sinistra. E se questo governo dura dieci anni, come io credo, ne salteranno fuori in tanti».
Fuori da dove?
«Credo che le teste e le energie ci siano. Hanno avuto paura o non sono riusciti a rivelarsi, ma adesso verranno fuori. Verranno accusati di utilitarismo, di servilismo, mentre magari sono di destra da sempre, ma non lo manifestavano».
Nomi?
«Anche se l’avessi non li farei».
Walter Siti ha scritto che a destra ci sono più poltrone che culi. È vero?
«Sostanzialmente sì. Bisogna formare i culi. Non è una cosa che si improvvisa. Perché quando occupi una poltrona e sbagli, provochi un danno ancora maggiore alla tua parte».
Se sono persone valide, perché non fare i nomi?
«Non è che uno si deve vergognare. È che è faticoso mettersi contro l’onda vincente. Le faccio il mio esempio personale».
Lei è stato ostracizzato?
«Io vengo considerato molto a destra perché mi sono occupato di fascismo. Nel libro su Bottai, scritto nel 1976 e che dopo 47 anni ancora si trova in libreria negli Oscar, per la prima volta si è detto che era esistita una cultura durante il fascismo. E questo mi ha provocato questo marchio di essere di destra, se non addirittura fascista. E sono cose che si pagano. Io le ho pagate».
In che termini le ha pagate?
«Certamente sarebbe stata una cosa diversa. Perché io ho scritto questi libri per l’unico motivo nobile per cui si scrivono libri di storia, cioè per cambiare una vulgata sbagliata. Il che non significa che il fascismo sia una buona cosa. Io detesto il fascismo. Sarei stato un furioso antifascista durante il regime. Ma la storiografia è un’altra cosa. Bisognava ristabilire una giustizia storiografica su Marinetti, su Bottai, su D’Annunzio».
Parliamo di D’Annunzio (a cui è dedicato anche il suo ultimo libro “La vita come opera d’arte”, Rizzoli). Per esempio, ne “I cani del nulla” Emanuele Trevi si ispira a una poesia di D’Annunzio sui suoi cani e sostanzialmente lo definisce un fascista.
«È un tic che io combatto da anni. Gli storici sanno da sempre che D’Annunzio non era fascista. Prendeva in giro Mussolini, chiamava le camicie nere camicie sordide. Però quando sono arrivato al Vittoriale fuori c’erano bancarelle con paccottiglia varia, i gagliardetti, gli Eia Eia Alalà, i manganelli, le magliette con la scritta Me ne frego. Prima gli imposi di vendere anche le magliette con Che Guevara. Quando è scaduta la concessione sono riuscito a far rimuovere le bancarelle e a Gardone non si trova più un accendino con il duce. Per questo mi sono inimicato un sacco di gente a destra, prima di tutti Casa Pound».
Martedì Giorgio Zanchini l’ha invitata a “Quante Storie” su Rai3 a parlare di D’Annunzio. È segno che è cambiato il vento?
«In passato mi aveva invitato anche Corrado Augias. Ma anche lui ha insinuato, con il suo garbo, che io fossi molto di destra, non ha usato la parola fascista ma l’ho dovuto smentire molto seccamente».
Zanchini ha detto che da giovane odiava D’Annunzio.
«Per il solito tic. Perché non lo si conosce. Perché non ha mai letto la carta del Carnaro. In cui si parla di democrazia diretta, si bandiscono le differenze di sesso, lingua, religione, si parla di divorzio e le donne possono votare e anche essere elette. D’Annunzio aveva scritto per Fiume una costituzione che sarebbe tra le più democratiche anche oggi».
Da quando Meloni è al governo, la parola fascismo è tornata ad essere molto usata. Esiste un pericolo autoritario?
«La parola fascismo appartiene alla storia. Non si dovrebbe usarla se non in quel contesto. Il fascismo è fatto di leggi liberticide che oggi non ci sono e di controllo assoluto sulla società che oggi non c’è. E io non vedo neanche nessun segno che ci possa essere. In questo senso mi preoccupano molto di più la finanza internazionale, gli algoritmi e l’Intelligenza Artificiale. Quelli sì che sono rischi di “fascismi”, mi raccomando tra virgolette».
Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, esibisce un busto di Mussolini e non perde occasione di rivendicare la sua appartenenza – anche simbolica – a quella cultura.
«È una provocazione. Viene da una sua nostalgia personale, da come è stato educato. Certo non sono contento che si faccia fotografare con il busto del Duce. Ma la democrazia l’ha messo lì. Non ci è piombato con una marcia su Roma».
Anche Hitler è stato eletto.
«Vorrebbe dire che la democrazia è una cosa sbagliata? Se La Russa impedisse la discussione in Senato sarebbe un’alta cosa. Non mi pare l’abbia ancora fatto».
Esiste il “fascismo degli antifascisti”?
«Non esiste. Un’altra occasione dove la parola fascismo è usata a sproposito».
Come giudica lo spoils system in Rai? Fazio è un Bello Ciao o una risorsa persa? Lucia Annunziata?
«Mi sembra legittimo e normale non rinnovare il contratto a Fazio, dopo vent’anni. La Annunziata ha presto una posizione politica. Legittima anche quella».
Diciamo la verità: a destra ci sono persone veramente impresentabili che usano l’ostracismo per giustificare il proprio insuccesso e la propria irrilevanza.
«Chi è bravo davvero il successo lo ottiene. Ma questa figura c’è anche a sinistra. Gente di estrema sinistra che pensa di essere appestata. È una condizione umana marginale e triste”. —