Corriere della Sera, 1 giugno 2023
Essere un kosovaro albanese e vivere in mezzo ai serbi
Ogni mattina Fehmi Mehmeti si sveglia e sa che la prima cosa che dovrà fare è fingere di non essere sé stesso. Scende in cortile, svita la targa della Repubblica popolare del Kosovo dal suo camioncino da muratore, la sostituisce con una fasulla della Serbia, e solo allora si sente pronto per fare la spesa a Zvecan e poi raggiungere il cantiere poco distante dove è impiegato. Al ritorno, si ferma sempre sul ciglio della strada a ripetete l’operazione, sotto gli occhi comprensivi dei soldati della Nato.
Abita a Lipa, un villaggio immerso tra i boschi dove non c’è nulla, se non ottanta dei cinquecento albanesi che vivono circondati dall’ostilità di sedicimila «compatrioti» di etnia serba. Nella municipalità con il primato delle proteste più violente contro uno Stato che non viene riconosciuto come tale dalla maggioranza degli abitanti di quest’area. «In teoria questa terra è casa mia, ma è come se fossi all’estero», dice Fahmi, che ha moglie, un figlio di tre anni e sogna di andarsene un giorno, da questo lembo di terra così estremo, dove esiste solo l’economia sommersa e la povertà è l’unica cosa in comune tra i due gruppi etnici che la abitano. «I serbi con cui lavoro si lamentano sempre del destino. Io invece penso che non ci sia nulla di peggio che essere kosovaro-albanese e avere in sorte di vivere in mezzo a loro».
Il fiume
Quando arrivando da Pristina si supera il fiume Ibar, cambia tutto. Non solo le bandiere esposte fuori da case e negozi, che dall’aquila rossa dell’Albania passano a quella bicefala su sfondo tricolore della Serbia. A sud come a nord, sono davvero pochi gli stendardi blu del Kosovo. Anche questa assenza non è un dettaglio da poco. Ma attraversare quel ponte significa passare dall’euro del Kosovo al dinaro serbo, la moneta con la quale viene pagato Fehmi. Significa passare dalla lingua albanese al serbo, veder circolare solo auto con targa serba rilasciate da Belgrado. Quando il governo di Pristina ha cercato di mettere mano a questa anomalia, minacciando multe, è scoppiata una mezza rivolta. Ci hanno messo una pezza in senso non solo figurato, con un adesivo bianco che nasconde la sigla KS, ricordo della Jugoslavia che fu.
I numeri di telefono usano il prefisso serbo, ben diverso dalle tre cifre utilizzate in Kosovo dal 2018. Nei negozi ci sono soltanto giornali e riviste stampati in Serbia, e la gente intorno preferisce avere un passaporto fornito dalla Serbia anziché dal Kosovo. A pochi metri dal ponte, un murale con scritte in cirillico fonde la bandiera serba e quella russa e avvisa il viandante che «Kosovo è Serbia, Crimea è Russia».
Il rischio di fare la spesa
I documenti di identità e gli atti amministrativi, anche quelli della famiglia di Mehmeti e degli altri kosovari di etnia albanese, sono rilasciati in serbo. Racconta Fehmi che le poche volte in cui escono, anche solo per fare la spesa, lui e sua moglie stanno zitti, per non farsi riconoscere. Hanno deciso di fare così dopo che l’anno scorso un gruppo di ubriachi li ha aggrediti durante la sagra di Zvecan. «È la nostra vita da kosovari in incognito».
Ieri non è successo niente. I manifestanti radunati davanti al municipio di Zvecan per impedire l’ingresso del nuovo sindaco di etnia albanese hanno srotolato sulla strada una bandiera serba lunga 250 metri, non proprio il segno di una insurrezione spontanea. I capi della rivolta hanno avuto un lungo colloquio oltre la barriera di filo spinato con un ufficiale della missione Nato.
Le richieste
Chiedono il rilascio dei due manifestanti arrestati dopo gli scontri che hanno causato il ferimento di 34 soldati e il ritiro della polizia militare kosovara che presidia l’edificio. Dopo gli Usa, che hanno sospeso l’esercitazione Nato, anche Macron ha fatto pressioni sul Kosovo. «La responsabilità delle tensioni è del suo governo», ha detto il presidente francese. A fine giornata, il primo ministro kosovaro Albin Kurti si è detto disponibile a indire un nuovo voto. «Ma solo se finiranno gli scontri e la protesta tornerà a essere pacifica». Finirà con il solito compromesso. I quattro Comuni che hanno eletto sindaci di etnia albanese avranno una amministrazione provvisoria fino a data da destinarsi, all’interno di un’area dove tutto è provvisorio. Ci pensiamo dopo, sembra essere questo il motto della comunità internazionale sul Kosovo del nord. Nel 2019, Fehmi aveva accettato di candidarsi alle municipali nella lista albanese. Avrebbe avuto per intero il voto del suo villaggio. Una mattina, trovò il suo gatto inchiodato alla porta di casa. E decise di rinunciare.