la Repubblica, 1 giugno 2023
Cosa pensa Parigi quando dice Europa
Sono anni che ci si interroga sulla natura della sua vocazione europeista. Perché da un lato è innegabile che Macron sia uno dei rari leader continentali con qualcosa da dire in tema di sovranità europea, autonomia strategica e più in generale con un pensiero sull’Europa nel mondo. Ma dall’altro, al di là delle belle parole, il suo europeismo non convince, poiché troppo smaccatamente funzionale alla Francia e alla sua eterna ambizione di condurre il gioco comunitario. Non per niente è stato accusato di cesarismo, bonapartismo e gaullismo, di perseguire un’Europa delle nazioni a trazione francese. Anche se forse, per capire che cosa ha in testa, è al disegno continentale di Richelieu che bisognerebbe tornare.
A suo modo fu “europeista” anche il cardinale più famoso di Francia, nel senso che la sua politica guardava più fuori che dentro i confini del regno di Luigi XIII. All’interno costruì uno Stato- nazione centralizzato, con un sistema di polizia, un esercito moderno e un’amministrazione fiscale. Mentre in Europa, grazie a invenzioni come il ministero degli Esteri, l’Académie Française o l’Imprimerie royale, Richelieu si preoccupò anzitutto che la suaFrancia fosse capace di influenzare le culture degli altri, che poi è il motivo per cui nei due secoli successivi la copiaronotutti. Per capire da dove nasceva tutto questo basta leggere il suo Testamento Politico, uscito postumo nel 1688. Richelieu aveva una cultura laica, forse aveva letto pure Machiavelli; e difatti sosteneva che il re di Francia avrebbe dovuto agire sempre e comunque secondo “ragione”. Non quella di Cicerone però, che con Tommaso d’Aquino fu il suo maestro, ma una ragione diversa, la Raison d’Etat. Ovvero una ragione quasi sconosciuta, emanazione diretta dell’Altissimo, che imponeva alla monarchia di oltrepassare l’interesse dei singoli per perseguire solo quello superiore della nazione.
È abbastanza assurdo pensare che gli inventori dell’interesse nazionale e della ragion di Stato, cioè i francesi, possano essere europeisti come tutti gli altri. Ed è questo il problema di Macron, non quello di convincere gli europei a smarcarsi dagli americani e tornare a pieno titolo a “fare mondo”. L’Europa cui lui ambisce è francesissima, cioè con Parigi sempre un passo davanti agli altri: per questo il suo europeismo crea imbarazzo tra partner comunitari persino quando è capace di intuizioni geopoliticamente feconde come nel caso della neo costituita Comunità politica europea.
Richelieu mise la Francia al centro dell’Europa facendone il garante indispensabile dell’ordine continentale. In primo luogo tessendo una rete di intese con Olandesi, Svedesi e Bavaresi, partner cioè relativamente deboli per sfidare la supremazia di Parigi. Poi tutelando le “libertà” di tedeschi e italiani, ovvero preoccupandosi delle maggiori aree strategiche continentali. E infine alleandosi con i protestanti contro la Spagna e l’Austria cattoliche, ma senza alienarsi il Papa (solo lui poteva riuscirci!) e dunque in piena continuità con le scelte di Clodoveo e Carlomagno.
Macron è erede di questa tradizione, non c’è niente da fare... Altrimenti non sarebbe l’unico leader europeo in grado di profilarsi a livello globale anche con i “cattivi” di turno tipo Trump, Putin o Xi Jinping... Il suo punto debole è che la Francia di oggi, da sola, non può competere con i grandi aggregati americano e cinese. Perché per riuscirci dovrebbe trascinarsi dietro altri paesi europei, ai quali però, al di fuori dei tavoli comunitari, non può certo offrire quel che potevano offrire Richelieu, Napoleone o deGaulle, non solo in termini politici o militari, ma anche economici e culturali.
E comunque se Macron non cercasse visibilità attraverso l’Europa non sarebbe un vero francese. E non sarebbe un vero francese neanche se scommettesse su un continente in cui la Francia non abbia diritto esclusivo alla grandeur. Ecco perché quando si tratta di investire su un’Europa politica e sul rafforzamento delle istituzioni comunitarie, lui esita. Perché per competere da Bruxelles con Usa e Cina, dovrebbe ridimensionare il ruolo francese, cedendo sovranità per costruire una politica estera e di difesa comune degna di questo nome. Ma qui il presidente francese temporeggia, rischiando che i suoi appelli alla sovranità europea e all’autonomia strategica diventino una specie di mantra.
Il sospetto, legittimo, è che l’inquilino dell’Eliseo voglia fare come de Gaulle nel secolo scorso, ossia riproporre mutatis mutandis ilTestamento Politico di Richelieu. E che per riuscirci, finita l’epoca delle nazioni indispensabili, abbia pensato a uno stratagemma assolutamente degno dell’inarrivabile cardinale: utilizzare l’Unione europea per posizionare la Francia come potenza globale; e poi convincere i partner internazionaliche gli interessi nazionali francesi coincidono in tutto e per tutto con quelli continentali.
“His fulta manebunt” faceva stampigliare Richelieu all’interno dei volumi della sua sterminata biblioteca, perché sapeva che per evitare sviluppi internazionali dannosi per la Francia, l’autorità culturale contava quanto quella politica e militare. I suoi modelli erano Assurbanipal che costruì la favolosa biblioteca di Nivive, Tolomeo che volle quella di Alessandria, e tutti i grandi dell’antichità che provarono a realizzare con la politica ciò che avevano trovato scritto nei libri: una lezione che in Francia, dopo di lui, è stata raramente ignorata da chi raggiunge i vertici delle istituzioni statali.
Deep literacy la chiama Kissinger, intesa come capacità di costruire la propria leadership sui libri di quelli venuti prima. E in questo senso, dopo Mitterand, Macron è certamente il presidente più letterario degli ultimi tempi, con un’adorazione per Victor Hugo che gli fa onore. Solo che l’autore de I Miserabili sognava gli “Stati Uniti d’Europa”, cui dedicò il discorso al Congresso mondiale della Pace di Parigi all’indomani dei moti nazionali del 1848.
E invece a Macron un’Europa federale che possa offuscare la Francia non interessa. La sua, in fondo, resta un’Europa in balia delle nazioni, dove ilTestamento Politico di Richelieu può tornare persino più utile dei Trattati di Maastricht o Lisbona.