la Repubblica, 2 giugno 2023
Meloni contro i poteri
La cronaca degli ultimi giorni è impressionante, perché dà l’idea di una progressione. E di un’allergia crescente ai controlli, ai poteri terzi e neutrali, al sistema di checks & balances che fanno la differenza fra una democrazia liberale e una illiberale (secondo la celebre auto-definizione di Orbán). L’insofferenza e la scure della maggioranza prima o poi tocca a tutti: la Banca d’Italia, la Corte dei conti, la magistratura, la Rai, la commissione europea. E naturalmente la stampa, che può solo applaudire, altrimenti sono i soliti “giornaloni” con i quali non vale la pena parlare o confrontarsi.
È una postura che, in teoria, contraddice l’immagine che Giorgia Meloni vuol dare di sé in Italia e all’estero. La premier ama rappresentarsi e aspira a essere considerata come una leader liberal-conservatrice, capace di guidare un capovolgimento degli equilibri europei post-2024. Eppure, giorno dopo giorno, membri del suo governo e, in particolare, gli esponenti di FdI a lei più vicini, fanno di tutto per smentire questa narrazione rassicurante e intensificano gli attacchi e le minacce alle Istituzioni di garanzia.
La prova la si è avuta ieri. Mentre Meloni riceveva a palazzo Chigi i vertici della Corte dei conti, rilasciando comunicati pieni di dolci parole sulle “collaborazione” fra istituzioni, in Parlamento la sua maggioranza approvava l’emendamento killer che abolisce il controllo preventivo dei giudici contabili sull’attuazione del Pnrr. Un’evidente rappresaglia politica di Raffaele Fitto per il rapporto sui ritardi del piano, appena pubblicato e oggetto degli strali del ministro. Ma non è un fulmine a ciel sereno, c’è del metodo. Stupirono tutti le parole sguaiate del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari contro la Banca d’Italia quando si parlava di far saltare il tetto al contante. Poi effettivamente il tetto venne alzato. A dimostrazione che il braccio destro di Meloni a palazzo Chigi non aveva parlato invano. Era quella la linea politica e la poca tolleranza nei confronti del governatore Ignazio Visco la si è potuta misurare ieri, quando le considerazioni finali del numero uno di Banca d’Italia, misurate anche se piene di dubbi sulle scelte economiche di palazzo Chigi, sono state accolte da un gelido silenzio da parte del governo.
Questa linea-caterpillar, di scontro quotidiano con i poteri super-partes e di occupazione di tutte le caselle di potere, si è dispiegata in tutta la sua geometrica potenza sulle nomine degli apparati e delle aziende pubbliche. Cacciato senza troppi complimenti il capo della polizia, lottizzata senza riguardi la Rai, fino all’esplicito desiderio di sottrarre al governatore Bonaccini la ricostruzione post-alluvione per affidarla a qualche amico. Una macchina da guerra che impressiona perché non lascia spazi. Qualche voce critica rimane, ma viene sommersa dal monopolio del colosso informativo Rai-Mediaset, ormai di un colore unico nero-azzurro, e dal coro dei manganellatori dei quotidiani di destra, quasi tutti in mano a un parlamentare di maggioranza. Tanto che un uomo di Stato solitamente prudente come Romano Prodi, alla Stampa ha confidato il suo malessere per questa deriva ungherese: «Siamo davanti ad un governo che punta a prendersi tutto. C’è una parola semplice che riassume tutto questo: autoritarismo. Così si sta cambiando la natura del Paese».
Naturalmente, a dispetto delle buone relazioni personali tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, il terminale ultimo di questa tensione è il primo magistrato d’Italia. È infatti sul Quirinale, finora sottratto alle polemiche più becere (con l’inquietante l’eccezione di un quotidiano d’area che ha recentemente definito Mattarella “il capo dell’opposizione”) che si stanno addensando nere nubi che preannunciano pioggia. Nelle ovattate stanze della reggia dei Papi ha provocato vero sconcerto l’uscita improvvida di un ministro del governo Meloni, Nello Musumeci, conosciuto un tempo per il suo rispetto delle Istituzioni. Una polemica diretta e violenta contro il capo dello Stato da parte di un ministro in carica, per di più del partito di maggioranza relativa, non si era infatti mai vista. «Io sono contento che anche il Presidente della Repubblica oggi sia sui luoghi alluvionati, come abbiamo fatto tutti noi ministri, come per due volte ha fatto il capo del governo. Peccato che oggi del governo non ci sia nessuno a illustrare al Presidente della Repubblica alcune particolari situazioni del luogo. Fa niente». Ma a far sobbalzare ancora di più gli uomini del Colle è stata la mancata censura alle parole del ministro, che suonava di fatto come un implicito avallo del governo all’attacco.
Anche l’ultimo strappo parlamentare, in fondo, quello dell’emendamento sulla Difesa presentato e poi ritirato è uno schiaffo al Quirinale. Il capo dello Stato aveva infatti appena richiamato il governo, nella solennità di un’udienza al Colle con i presidenti di Camera e Senato, a non inserire nei decreti-legge questioni estranee alla materia del provvedimento, per tutelare la chiarezza della legislazione e lo Stato di diritto. Detto fatto, nottetempo il governo ha provato a riscrivere l’ordinamento della Difesa con un blitz su un decreto che parlava di pubblica amministrazione, salvo poi fare marcia indietro per l’intensità delle polemiche e il timore di una solenne bocciatura del Colle.
È un crescendo che dovrebbe preoccupare in primo luogo Meloni, perché contraddice quell’idea di forza tranquilla con cui vuole dipingersi. E proietta all’estero un volto sinistro del Paese, in lento scivolamento verso Est. «Io considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto». Era Alexis de Tocqueville, nel 1835, sulla tirannide della maggioranza. Forse la premier dovrebbe riporre sullo scaffale Roger Scruton e Alain de Benoist e ripartire dai classici.