il Giornale, 2 giugno 2023
A Napoli una mostra su Mario Schifano
Il grado di originalità di una mostra è spesso direttamente proporzionale alla tenacia dei luoghi comuni che sa mettere in crisi. Esempi. Mario Schifano (1934-98) «è» la pop art italiana. Oppure: l’opera di Mario Schifano coincide «più di tutto» con la pop art. Ecco. Riguardo al primo punto: Mario Schifano sta ad Andy Warhol così come un artista di Pittsburgh che guarda la pubblicità nel supermercato di una metropoli americana, sta a un artista italiano che guarda la stessa pubblicità in piazza del Popolo a Roma, con dietro l’obelisco Flaminio e davanti la chiesa di Santa Maria con dentro due tele di Caravaggio. Ciò che si guarda sarà anche la stessa cosa, lo sguardo però è del tutto differente. Citazione a proposito di Mario Schifano e l’infanzia della pop art: «Non vorrei apparire presuntuoso ma per infanzia io intendo la possibilità di continuare a osservare il mondo con uno sguardo magico». E per quanto riguarda il secondo punto, per Mario Schifano la pop art è forse solo uno degli occhiali – Ray-Ban, colorati, serigrafati, duplicati fra i tanti che ha dipinto e indossato per guardare il mondo. Ed ecco che allora Mario Schifano, comunista a suo modo e aristocratico per atteggiamento, superstar (arrivò al successo subito e a trent’anni, passato dagli Stati Uniti, era già famosissimo) e popolare (lo conoscevano tutti allora, lo conoscono tutti oggi: citato, falsificato, battuto ad aste milionarie), forse non è proprio come ce lo immaginavamo... Benvenuti alla grande mostra Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990 che apre oggi (fino al 29 ottobre) alle Gallerie d’Italia a Napoli, il museo di Intesa Sanpaolo che festeggia un anno dall’apertura della nuova sede. Curata da Luca Massimo Barbero (critico e storico dell’arte che con Schifano condivide forse un certo dandysmo), il quale ha scelto quasi 60 opere dell’artista italiano sparse tra musei, gallerie e collezioni private, la mostra ridisegna il percorso di un formidabile predatore di immagini, un giocoliere dell’arte che saltellava fra pittura, grafica, cinema, televisione, fotografia e computer (un artista multimediale prima della multimedialità nell’arte) che più di qualsiasi altro nel nostro secondo dopoguerra è stato in grado di creare appunto – un immaginario diverso, nuovo, contemporaneo. Semplificando, con un’iperbole si può dire che la sua opera, italianissima e internazionale, è una gigantesca Polaroid scattata, con l’occhio di uno che sapeva inquadrare perfettamente qualsiasi immagine, sulla contemporaneità. La sua e la nostra. Si chiamano maestri. Come dice Luca Massimo Barbero: «Mario Schifano per la qualità della pittura è un artista straordinario al di là della sua biografia». Biografia sregolata e vulcanica (eternamente giovane, famoso e maledetto: come ricordò il leggendario gallerista Plinio De Martiis un giorno in cui all’inaugurazione di una sua mostra vendette tutte le sue opere «Subito dopo Mario si comprò una macchina, mi pare una MG bianca, e andò a sbattere facendo un incidente pazzesco... Non aveva neanche la patente»), sguardo rigoroso e inedito, Schifano è anche uno degli artisti più attuali della propria generazione. Moderno («Non accetto i ricatti del passato»), «futurista» e vitale (non è nostalgico, non è romantico), aveva una fiducia totale nella tecnologia. Acquistava gli ultimi modelli di macchine fotografiche e telecamere che arrivavano sul mercato, fu tra i primi a elaborare immagini al computer e riportarle su tele emulsionate (le «tele computerizzate»), oggi non rifiuterebbe gli Nft e chissà cosa creerebbe con l’Intelligenza artificiale. E sì che, nato a Homs, in Libia, dove il padre lavorava come archeologo, quando arriva a Roma lavora, giovanissimo, al museo etrusco di Villa Giulia come restauratore. E l’occhio di Schifano – la sua capacità di guardare e inquadrare le immagini – arriva da lì. Il resto è entrato nella storia dell’arte. Qui, al secondo piano dell’ex Banco di Napoli, il maestoso palazzo progettato dall’architetto Marcello Piacentini affacciato sulla centralissima via Toledo, ce n’è un pezzo. Si parte da primi anni Sessanta, quando la pittura di Mario Schifano – il pittore-Puma – è quella dei monocromi, dove il bordo che delimita il campo dell’immagine ricorda la forma del fotogramma. Ed ecco alcune opere rarissime: sul tema delle insegne qui ci sono la Grande pittura del 1963 e opere iconiche dedicate alla Coca Cola e alla Esso, e sono gli anni del Boom, delle prime stazioni di servizio, del Sorpasso... Poi gli smalti e le tele «sotto perspex» o plexiglass, come i Compagni (1968), dove chissà se le stelle e le palme sono quelle che Schifano vedeva nelle sue serate lisergiche al Piper oppure che intravide da piccolo assieme al padre nelle oasi di Leptis Magna... Quindi i pezzi-capolavoro dei grandi paesaggi italiani e del Futurismo rivisitato, dove «rivisitare» significa: prendere una fotografia famosa, quella scattata nel 1912 a Parigi in occasione della prima mostra futurista fuori dall’Italia con Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini, trasformarla in uno specchio, ridurla a liste e costringerti a ri-guardarla, cioè a ri-visitarla. E infine, nel lungo corridoio, ecco la serie di opere degli anni Settanta «Paesaggi TV», per la prima volta esposti al pubblico. Schifano è ammaliato dalle immagini che scorrono ininterrotte sugli schermi televisivi sempre accesi nel suo studio. Le fotografa. Poi le stampa su tele emulsionate. E quindi interviene a mano colorandole, tra fotografia e pittura, in quel «flusso ininterrotto di immagini» di cui è costituita la sua vita e la sua arte. Infine, al piano terra, nell’immenso «Salone Toledo» delle Gallerie d’Italia, il curatore Luca Massimo Barbero, in un allestimento pulito e sorprendente, ha voluto le opere di grande formato di Schifano. Come la celebre tela Festa cinese, un «affresco della contemporaneità» di 7,5 metri per tre, dipinto nel 1968 con otto diversi tipi di rosso, spray e smalti per la sala da pranzo che Gae Aulenti disegnò per la casa romana della famiglia Agnelli (e che poi l’Avvocato rifiutò perché troppo «maoista»...), oppure come Gaston a cavallo (siamo negli anni ’80), o come i tre enormi teleri nei quali Schifano rilegge ancora una volta – la sua passione per lo schermo, i media e la contemporaneità. Si parte dall’archeologia e si arriva alle soglie della videoarte, in un perfido labirinto dentro il quale il vorace artista-Minotauro tutto vede, tutto divora e tutto trasforma nelle icone che sono diventate nostre – del contemporaneo.