il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2023
La sporca guerra di Céline
Pubblichiamo uno stralcio di “Guerra” di Louis-Ferdinand Céline: raccolta di inediti rubati nel 1944 dalla casa dello scrittore e ritrovati da poco. È in libreria con Adelphi.
Quel paese era piatto – ma i fossati traditori e belli profondi, pieni d’acqua, rendevano molto difficile avanzare. Toccava fare giri a non finire, ti ritrovavi allo stesso punto. Però mi sembra che ho sentito gnaulare le pallottole. Comunque il fontanile dove mi sono fermato quello era vero. Il braccio lo tenevo con l’altro perché non riuscivo più a raddrizzarlo. Se ne stava giù morto sul fianco. All’altezza della spalla c’era una specie di grossa spugna fatta di stoffa e di sangue. Se la muovevo un po’ smettevo di vivere tanto atroce il dolore che mi provoca fino in fondo alla vita, è il caso di dire.
Sentivo che dentro di vita ne restava ancora molta, che si difendeva per modo di dire. Adesso non camminavo manco troppo male. Era abominevole dovunque come sofferenza, da sotto il ginocchio fino a dentro alla testa. A parte questo l’orecchio era poltiglia sonora, le cose non erano affatto le stesse né più come prima. Sembravano di mastice, gli alberi non stavano mai fermi, la strada sotto le scarpe faceva salite e discesette. La giubba e la pioggia, non avevo più nient’altro addosso. E sempre nessuno. La tortura alla testa la sentivo fortissimo nella campagna così grande e vuota. Mi facevo quasi paura da solo a ascoltarmi. Pensavo che avrei risvegliato la battaglia da tanto rumore che facevo dentro. Uno sprazzo di sole e in lontananza monta sopra i campi un vero campanile. Va’ da quella parte mi dico. E poi mi siedo – con la mia gran cagnara nella crapa, il braccio a pezzi, e mi costringo a ricordarmi quello che era successo. Non ci riesco.
Era una bolgia, la memoria. E poi anzitutto sentivo troppo caldo, anche per il campanile la distanza variava, mi trafiggeva gli occhi vicinissimo, più lontano. Forse è un miraggio, mi dico. Ma non sono così fesso. Siccome mi fa male dappertutto, allora esiste anche il campanile. Era un modo di ragionare. Rieccomi in cammino lungo il ciglio della strada. A una curva, un tizio nel fondo motoso si muove, sicuro che mi vede. Penso è un cadavere che si torce, sicuro che c’ho le traveggole. Era vestito di giallo con un fucile. Tremava, o ero io che tremavo. Mi fa segno di venire avanti. E io vado. Non rischiavo niente. Poi mi parla da vicino. Capisco al volo. Era un inglese. E così, col sangue che avevo in bocca, gli rispondo in inglese. Io che non avevo voluto sputare dodici parole quand’ero lì per impararlo, mi metto a fare conversazione. Sarà stata l’emozione. Mi faceva bene pure all’orecchio parlargli in inglese. Mi sembra che avevo meno rumore. Fatto sta che mi aiuta a camminare. Mi sorregge con grande cautela. Io mi fermavo spesso. Sempre meglio uno come lui, penso, a trovarmi, che un cazzone dei nostri.
A lui almeno non gli dovevo raccontare tutta la guerra per spiegargli il perché e il percome era finita la nostra spedizione.
“Where are we going?…” gli dico.
“A Yprèss!” mi fa lui.
Ypres, era sicuro quel campanile laggiù. Dunque era un campanile vero, di città. Ci volevano ancora quattro ore buone camminando a balzelloni come facevamo noi per i sentieri e specie poi per i campi. Io non ci vedevo più molto bene ma per giunta ci vedevo pure rosso. Mi ero diviso il corpo in varie parti. La parte bagnata, la parte che era sbronza, la parte del braccio che era atroce, la parte dell’orecchio che era abominevole, la parte dell’amicizia per l’inglese che era consolante assai, la parte del ginocchio che ogni tanto se ne andava per i cazzi suoi, la parte del passato che già cercava, me lo ricordo bene, di aggrapparsi al presente e non ci riusciva più – e poi ancora il futuro che mi faceva più paura di tutto il resto, e per finire sopra le altre una parte stramba che voleva raccontarmi una storia. Una roba che non potevi manco più chiamare sfiga, era buffa. Dopo abbiamo fatto ancora un chilometro e poi io mi rifiuto di proseguire. “Dov’è che andavi?” gli domando a un tratto.
Mi fermo. Non vado più avanti. E sì che la sua Ypres non è lontana. Tutt’intorno a noi i campi rotolavano, si gonfiavano in grandi gobbe mobili come se ratti enormi sollevassero le zolle spostandosi sotto i solchi. Magari erano pure persone. Una massa, un esercito tipo rasoterra… Si muoveva come il mare con vere e proprie onde… Facevo meglio a starmene seduto. Soprattutto con i rumori di quella tempesta che mi passavano tra le orecchie. Dentro la testa ero ormai solo una corrente d’aria di uragani. Tant’è che mi sono messo a sbraitare.
“I am not going! I am going to the guerra di movimento!”.
E come ho detto, ho fatto. Mi sono alzato sempre col mio braccio e il mio orecchio, il sangue, e sono ripartito in direzione del nemico da dove venivamo. Allora quell’altro mi ha cazziato. Sicuro mi stava salendo la febbre, e più era il caldo che dovevo sopportare più capivo l’inglese. Zoppicavo. Non sapeva più come fermarmi. Ci siamo si fa per dire azzuffati in mezzo alla pianura. Alla fine l’ha spuntata lui, mi ha acchiappato per il braccio, quello che era aperto. Gli sono andato appresso. Ma non avevamo ancora fatto neanche un quarto d’ora in direzione della città quando ti vedo sulla strada una decina di cavalleggeri in uniforme cachi.
“Hurray!” attacco a spolmonarmi non appena li vedo da lontano. “Hurray!”.
Ora sapevo che erano gli inglesi.
“Hurray!” mi rispondono.
L’ufficiale si avvicina. Mi fa un complimento.
“Brave soldier! Brave soldier!” dice. “Where do you come from?”.
E chi c’aveva più pensato da dove comavo from? Mi ha rifatto paura quel bastardo.
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