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 2023  settembre 22 Venerdì calendario

Colloquio con Kate Eichhorn - su "Content. L’industria culturale nell’era digitale" (Einaudi)

Che ci fa un abito da sera con svolazzanti ruches di tulle negli asettici corridoi dell’astronave di 2001: Odissea nello Spazio? La nuova campagna Gucci Exquisite, che ricostruisce meticolosamente alcuni set di Kubrick (oltre a Odissea, anche Shining e Barry Lyndon) e li ripopola di modelle e modelli che indossano gli abiti della nuova collezione, non è solo un mix di due visioni estetiche totalizzanti, ma anche il segno di qualcosa di più profondo e pervasivo: il trionfo dell’era del contenuto. «Tutto può diventare qualsiasi cosa, o qualcos’altro: come nella famosa scena del capolavoro di Kubrick in cui l’osso diventa un satellite»: così lo stilista Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha commentato su Instagram, dove Exquisite sta spopolando per la potenza iconica. E sta rivelando la capacità del contenuto digitale di espandersi, fondere categorie artistiche, sottrarsi ai preconcetti e diventare puro impatto visivo. È l’era del contenuto digitale, dove la qualità si contende gli spazi con una quantità vorticosa, un caos nietzschiano che genera una nuova qualità; lo sostiene Kate Eichhorn, autrice del saggio Content (Mit Press) e docente di Cultura dei media alla New School University di New York. «Attualmente ogni anno vengono prodotti oltre 44 mila miliardi di Gigabyte di informazioni online, dieci volte quanti ne producevamo dieci anni fa», osserva Eichhorn. «La domanda è costante: immaginiamo lo sconforto che proveremmo se un giorno, dopo il login su Instagram o TikTok, non trovassimo nemmeno un aggiornamento». 

Questa fame non riguarda solo i settori più popolari, sport e gossip, ma anche i più raffinati, come la moda. Aneddoto significativo è quello riportato dalla sociologa Agnès Rocamora: una fashion blogger sentiva il bisogno di scusarsi in pubblico con i lettori per non aver pubblicato nulla... da ben due giorni. La necessità di una successione incessante ed esponenziale di contenuti fa pensare alla disneyana marcia delle scope in Topolino apprendista stregone, anche perché la produzione di parole e immagini, in qualche modo, ha molto a che fare con la magia. Il sociologo Pierre Bordieu, nel suo saggio Le couturier et sa griffe, scriveva: “Le parole che si usano nello scrivere di moda non descrivono soltanto il valore degli oggetti a cui si riferiscono, ma lo creano. Se c’è un ambito dove si possono creare cose con le parole, come nella magia e ancora meglio che nella magia, è nell’universo della moda”. Ma questo potere, nell’era del “content”, rischia di disperdersi nell’oceano della quantità, perché la circolazione continua non è più soltanto un effetto dell’informazione che produce, ma ne è diventata la causa. «L’esempio più nitido è l’Instagram Egg: nel 2019 l’immagine a ricevere più like è stata la foto digitale di un uovo su fondo bianco pubblicata dal Chris Godfrey, creativo dietro l’account @world_record_egg: oggi, con oltre 56,1 milioni di cuoricini, è il post che ha ricevuto più like di sempre», dice Eichhorn. «Quell’uovo è sicuramente un contenuto: ma possiamo considerarlo un’informazione? Non è stato fatto circolare su Instagram per trasmettere un messaggio o raccontare qualcosa: il suo unico scopo era diventare l’immagine con più like della storia dei social media». È questa la vera novità indotta dalla tecnologia di una parte importante di contenuti digitali: «Circolare con l’unico scopo di circolare, moltiplicandosi a suon di condivisioni e inseguendo un nirvana». Per questo, teorizza la sociologa, le società che oggi sono più premiate dal mercato sono quelle che, più che produrre ottimi contenuti, riescono a facilitarne la circolazione, come le grandi piattaforme social. 

«L’approccio si replica anche su scala più piccola: alla scuola di moda della mia università diversi allievi di uno dei corsi più seguiti – Fashion, marketing and communication – dicono che non stanno studiando come realizzare pubblicità per i brand, ma come organizzare un ecosistema di contenuti a partire dagli utenti/pubblico di Instagram, TikTok e altri social», spiega Eichhorn. Un “dietro le quinte” che sfata il mito del digitale «e sovverte le gerarchie per arrivare a una cultura prodotta  dal basso». La capacità di pensiero intorno al contenuto è sempre più centrale non solo per le grandi case come Gucci o Prada. Lo testimonia anche il flusso di esperti tra la carta stampata – tuttora detentrice di un capitale culturale che i brand di moda riconoscono –  e contenuti per le griffe, e viceversa. Basti pensare a Christopher Simmonds: da art director per Gucci e produttore di idee per Dior e Balenciaga a direttore creativo del fashion magazine inglese The Face. Non pochi giornalisti hanno creato brand in proprio: Lauren Chan, editorialista di Glamour, ha lanciato Henning, Emily Weiss, da Vogue al suo blog fino all’impero del beauty Glossier. Lucinda Chambers, fashion director di Vogue Uk, ha lanciato Colville Official. Isabel Wilkinson del New York Times Attersee. Per il Financial Times questo si spiega con la capacità dei giornalisti di identificare ciò che mancava grazie al know-how posseduto per la familiarità con l’argomento. 
Nell’arte c’è meno gerarchia: «Non era famosa Anna Weyant, pittrice canadese che ha raggiunto la fama grazie a Instagram e di recente ha venduto un suo quadro per 1,6 milioni di dollari», spiega Eichhorn. «Parallelo è il successo degli “instapoet” come Rupi Kaur», dai reading ai bestseller del Times. «La moda è sempre stata pensata per la sua mediatizzazione. Quello che è radicalmente nuovo è che oggi i brand producono privilegiando non la funzione di un capo, ma il modo in cui apparirà sui social». Il cerchio, magicamente, si chiude: è vero che nella moda i contenuti creano le cose, diceva Bourdieu, ma è vero anche che le cose – gli smartphone – creano o influenzano l’anima e il fine di buona parte dei contenuti.