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 2023  maggio 31 Mercoledì calendario

Lunga intervista a Marco Bellocchio

L’appuntamento con Marco Bellocchio è in un elegante hotel di Milano.
Reduce dal Festival di Cannes privo di riconoscimenti, il regista di Rapito è in tour per presentare il film al pubblico. È un’opera che abbina alla seduzione estetica il taglio anticlericale nel narrare la vicenda di Edgardo Mortara, nono dei dodici figli di una famiglia ebraica della Bologna di metà Ottocento, ancora appartenente allo Stato pontificio. Battezzato di nascosto dalla tata cattolica allorché malato e in pericolo di vita, una volta appreso dell’amministrazione del sacramento, papa Pio IX esercitò l’imperativo previsto dal diritto canonico di educare cristianamente il nuovo affiliato alla Chiesa. Immediatamente il caso esplose con grande clamore, fino ad assumere rilevanza internazionale. Attorno alla vicenda del «bambino rapito dal Papa re», si coagularono le comunità ebraiche mondiali, la massoneria, i sovrani europei da Cavour a Napoleone III, le grandi testate giornalistiche. Una coalizione che s’infranse contro la volontà del bambino. Il quale crebbe in un convitto religioso, si fece prete assumendo il nome di Pio Maria Edgardo per gratitudine verso il Papa suo benefattore e morì a 90 anni nell’abbazia di Bohuay, in Belgio. Anche Pio IX, pronunciando il famoso «Non possumus», non indietreggiò. Ma in qualche modo quella vicenda contribuì ad accelerare la «presa di Roma» e la fine del potere temporale vaticano.


Come ha scelto il titolo del film?
«Prima avevamo pensato a La conversione ma, nonostante il mio entusiasmo, la garbata opposizione della comunità ebraica mi ha fatto recedere. Il secondo titolo era Non possumus, ma in questo caso è stata la distribuzione a dissuadermi perché il latino non lo conosce nessuno. Poco prima di fare i manifesti siamo arrivati a Rapito che, mi pare, entri nell’orecchio».


Qual è l’idea di questo film di cui va più fiero?
«Fin dall’inizio mi ha mosso l’amore per il dramma di questo bambino. Solo ora il film sta suscitando un certo tipo di discussioni e polemiche, ma il mio primo interesse non era fare un’opera contro Pio IX. Questi due elementi si sono integrati, un po’ come nei grandi romanzi dell’Ottocento s’intrecciano la piccola storia e la grande storia. Stiamo parlando di un film di 2 ore e 5 minuti, non di un libro di storia. Né è mia intenzione paragonarmi ad autori come Alessandro Manzoni che, pure, dedica un intero capitolo dei Promessi sposi alla peste».
Ha scritto una lettera a papa Francesco invitandolo a vederlo: risposte.
«Finora nessuna. Naturalmente ha cose ben più importanti di cui occuparsi».


Si aspettava qualche riconoscimento a Cannes?
«I riconoscimenti sono legati ai gusti dei giurati, che hanno scelto diversamente.
Inoltre, l’anno scorso avevo già avuto la Palma d’oro alla carriera. Si poteva considerare l’interprete del Papa, del padre o della madre…». Una straordinaria Barbara Ronchi.
«I grandi attori sono molto padroni del proprio volto e dei propri occhi. Lei ha saputo trovare la giusta misura della madre straziata».


Si può dire che c’è una prima parte del film più provocatoria e una seconda più riflessiva, in cui sembra rispettare le scelte del protagonista?
«Man mano che si procede, s’impone la grande storia con la fine del Regno pontificio. Avevamo l’esigenza di trovare delle sintesi, rendendo lo strazio del bambino. E l’impresa impossibile alla quale è chiamato, di conciliare le due religioni, quella della famiglia e quella del suo secondo padre, Pio IX. Qui è nata la scena nella quale schioda il crocifisso…». Quella iniziale con il padre tentato di lanciarlo dalla finestra ai suoi confratelli per sottrarlo al sequestro è un po’ forzata?
«Non è inventata. Nelle cronache si cita il padre che espone il bambino ai suoi correligionari perché lo portino via.
È anche vero che poi non se la sente, come si rendesse conto del rischio di perderlo definitivamente».
Dalle ricostruzioni storiche risulta che il Papa propose di farsi carico dell’educazione di Edgardo fino alla maggiore età quando avrebbe scelto a quale confessione aderire.
«È vero. Il bambino mostrò sempre gratitudine verso il Papa per l’educazione ricevuta».
Frequentando una scuola cattolica a Bologna, si voleva garantire ai genitori la possibilità di vederlo.
«Questo non lo so. So che il Papa dispose una pensione cospicua affinché il bambino potesse studiare. Poi lui chiese di continuare gli studi come missionario e di chiamarsi Pio. La sorpresa maggiore si ebbe quando, con la liberazione di Roma, il fratello entrò in seminario per riportarlo in famiglia, ma lui si oppose, scegliendo di rimanere lì».
Tornando al battesimo clandestino, la legge vietava che le famiglie ebraiche avessero personale cattolico proprio per evitare queste situazioni.
«Era un divieto blando e poco rispettato. Alle famiglie ebraiche faceva comodo avere personale cattolico nei giorni del shabbat, quand’è proibito lavorare».
Risulta anche che la massoneria favorì l’irrigidimento della famiglia.
«Il padre era massone, tuttavia era anche il più disponibile a un’apertura. La madre lo rimproverava perché lo riteneva troppo morbido. A un certo punto il permesso di visitare il bambino fu sospeso perché lei continuava a opporsi e rifiutava che venisse educato cristianamente».


Un dei meriti del film è mostrare che Edgardo aderì presto ai nuovi insegnamenti impartiti: quindi non fu un’educazione forzata?
«Nella sua autobiografia scrive di essere sempre stato trattato con estrema umanità. Ma se pensiamo a un bambino prelevato dalla sua famiglia non possiamo escludere che cercasse la migliore sopravvivenza. In un luogo sconosciuto, anche un bambino si adatta alla situazione. L’amico gli dice: “Tocca farse furbi”… Penso che non abbia fatto molti ragionamenti, in un ambiente gentile ma ostile trovò la sua strada».
Quando i genitori vanno a Roma il rabbino dice al padre che ha sbagliato a creare troppo clamore e che il bambino sta bene, «una brutta notizia per voi».
«Non cercava di scappare, si era adattato. Ma era un adattamento superficiale come evidenziò la visita della madre che riuscì a spezzarne le difese, provocandone la crisi e la richiesta di tornare dai fratelli».


Nella scena in cui sogna di schiodare Cristo crocifisso compie un atto di riparazione per conto del popolo ebraico?
«Gli dicono che il suo popolo è responsabile dell’uccisione di Dio, un’accusa che ora la Chiesa ha cancellato. E lui, vedendo e rivedendo questo crocifisso, immagina che, liberandolo dai chiodi, può aiutare una riconciliazione che gli permetta di non rinnegare la nuova religione e di riconciliarsi con la vecchia».
Nel dipingere un Pio IX mellifluo e geloso del proprio potere non si risparmia.
«Senz’altro. All’inizio era un Papa liberale, poi diventa quasi reazionario. Tenersi il bambino è il simbolo di una battaglia disperata. Che invece perde e, con essa, perde anche il suo regno e ne mostra il dolore. È una figura più tragica che caricaturale».
Tiene fede al principio del battesimo cristiano e da una posizione di debolezza si scontra con i poteri forti dell’epoca.
«Gli rimane il potere spirituale, ma non vuole perdere quello temporale. In Francia i cattolici si dividono, alcuni suggeriscono la restituzione.
Rischia di inimicarsi Napoleone III che lo difendeva in nome del principio del battesimo che fa di chi lo riceve un cristiano per sempre. E in nome del quale perde numerose alleanze. Wojtyla lo beatificò proprio in quanto simbolo della difesa della fede in un mondo che si laicizza».


Perché si è basato sulla ricostruzione di Daniele Scalise piuttosto che sull’autobiografia dello stesso Edgardo Mortara?
«Ho letto anche l’autobiografia, certo. Scalise è la fonte principale, ma ho attinto anche a un libriccino di Gemma Volli dove ho trovato la scena della madre disperata. Poi a quello di David Kertzer e ai documenti del processo all’inquisitore».


Che cos’è per lei l’ateismo?
«Ha in sé qualcosa di militante contro la religione che non è in me. Sono non credente, ma non ho bisogno di affermarlo. Anzi, in questi tempi più che complicati, laddove si trovassero momenti di dialogo senza pretendere che un credente rinunci alla fede o, al contrario, che voglia convertirmi, il mondo troverebbe nuove risorse. Nell’Ottocento esisteva il partito degli atei, io non sento questa forma di revanscismo. Certamente vengo da un’educazione cattolica da cui mi sono progressivamente separato».


È incuriosito dal cristianesimo, ma ostile alla Chiesa?
«Se vedo un credente non è che sia attratto, ma lo ascolto.
Capita che mi chieda: lui crede e io no, com’è possibile? A volte, quando vedo rappresentata la fede nell’arte e nel grande cinema, come quello di Dreyer, succede che mi commuovo».


Cos’è l’anticlericalismo?
«Nel mio caso, può derivare dall’educazione che ho ricevuto fatta di messaggi violenti: “Devi essere sempre in grazia di Dio, perché se muori vai all’inferno per sempre”. Sono stato educato con questi principi. Oggi un prete aperto non userebbe queste espressioni.
Ma a me è andata così, infatti per molti anni ho avuto paura. Poi, con l’adolescenza, mi sono emancipato».


In Italia, nel cinema e nella letteratura, c’è l’egemonia della sinistra?
«Si diceva che così fosse.
Però ormai le carte si sono mescolate. In un periodo in cui la sinistra era fortemente egemone, non sono mai stato iscritto al Pci. Anche il liberalismo progressista aveva il peso, poi c’erano distinzioni tra socialisti e comunisti. Comunque la sinistra era dominante». Ha seguito le polemiche del Salone del libro per la presentazione di Una famiglia radicale di Eugenia Roccella? «Penso che se si invita una persona a presentare il suo libro, ministro o non ministro, non si può impedirle di parlare. Poi, certo, c’è l’esuberanza dei giovani… Ma anche l’avversario ha diritto di parlare: impedirglielo è sbagliato». Sta già pensando al nuovo film? «L’idea è lavorare su Enzo Tortora. Non so se un film, una serie o altro. Mi prendo qualche settimana per decidere». Rapito può voler dire anche rimanere affascinati da un fatto, un avvenimento. È quello che può essere accaduto a Mortara? «Il significato primario è che è stato rapito, non volente. Un film può raccontare le estasi di Mortara come quelle di Santa Teresa. Ma penso che non lo farò io. Anche se non lo nego».